Il compito del traduttore, di W. Benjamin

Traduzione del saggio Die Aufgabe des Übersetzers di Walter Benjamin del 1920.

Il compito del traduttore (1920)

Walter Benjamin

Il riguardo per il fruitore non si dimostra mai fruttuoso alla comprensione di un’opera o di una forma d’arte. Non solo nel senso che il riferimento a un determinato pubblico o a suoi rappresentanti porta fuori strada, ma addirittura nel senso che il concetto di fruitore “ideale” è dannoso per ogni dibattito sulla teoria dell’arte, che è tenuto a presupporre semplicemente l’essenza e l’esistenza dell’uomo in generale. L’arte stessa si limita a presupporne solo l’essenza corporea e spirituale – ma l’attenzione mai, in nessuna delle sue opere. Infatti, nessuna poesia è per il lettore, nessun quadro per l’osservatore, nessuna sinfonia per l’ascoltatore.
E la traduzione sarebbe per lettori che non capiscono l’originale? Basterebbe a spiegare la differenza principale fra l’uno e l’altra in campo artistico. Inoltre, sembra l’unica ragione possibile per ridire “la stessa cosa”. Cosa “dice” una poesia? Cosa comunica? Molto poco a chi la capisce. L’essenziale della poesia non è la comunicazione, non è l’enunciato. Pertanto la traduzione che pretenda comunicare non comunicherebbe altro che la comunicazione, cioè l’inessenziale. È questo, infatti, anche il segno di riconoscimento delle cattive traduzioni. Ma ciò che in poesia esce dalla comunicazione – e anche il cattivo traduttore ammette che ciò sia l’essenziale – non è in generale considerato come inafferrabile, misterioso, “poetico”? Che il traduttore può restituire solo se si mette a poetare a sua volta.
Da qui deriva, in effetti, il secondo contrassegno della cattiva traduzione, definibile come trasmissione inesatta di un contenuto inessenziale. E non se ne esce finché la traduzione si fa carico di servire al lettore. Se la traduzione fosse destinata al lettore, dovrebbe esserlo anche l’originale. Ma se l’originale non consiste in questo, come si può intendere la traduzione riferendola a ciò?
La traduzione è una forma. Concepirla come tale significa tornare all’originale, perché lì, come intraducibilità, è rinchiusa la sua legge. La questione della traducibilità di un’opera ha due sensi. Può significare che l’opera troverebbe il traduttore sufficiente nel complesso dei suoi lettori o, meglio, che per essenza propria l’opera ammetta, quindi pretenda, la traduzione conforme al significato di questa forma. Fondamentalmente la prima questione è problematica da decidere, mentre la seconda è apodittica. Solo un pensiero superficiale, negando il senso autonomo della seconda, può dichiarare le due questioni equivalenti. Per contro, va segnalato che certi concetti relazionali conservano il loro senso, forse il loro senso migliore, non riferendoli a priori esclusivamente all’uomo. Così si potrebbe parlare di una vita o di un attimo indimenticabili, anche se tutti gli uomini li avessero dimenticati. Infatti, se la loro essenza esigesse di non dimenticarli, quel predicato non diventerebbe falso. Sarebbe solo un’esigenza a cui gli uomini non corrispondono. Al tempo stesso conterrebbe il rinvio a un dominio dove corrispondenza, invece, ci sarebbe – al pensiero di Dio. Al tempo stesso rimarrebbe da prendere in considerazione la traducibilità di forme linguistiche anche nel caso in cui fossero umanamente intraducibili. E non lo sarebbero di fatto, almeno in certa misura, secondo un concetto rigoroso di traduzione?
Con questa mossa liberatoria va posta la questione se la traduzione di certe formazioni linguistiche sia esigibile. Infatti, vale il teorema: se la traduzione è una forma, a certe opere la traducibilità deve inerire in modo essenziale.
La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere. Ciò non significa che la loro traduzione sia essenziale per se stesse, ma che nella loro traducibilità si estrinseca un determinato significato, inerente agli originali. È evidente che, per quanto buona sia, la traduzione non può mai significare qualcosa per l’originale. E tuttavia essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità, addirittura in rapporto tanto più intimo quanto meno significa per l’originale. Potrebbe essere definito come un rapporto naturale o, meglio, un rapporto di vita. Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse con il vivente, pur senza significare niente per lui, così la traduzione procede dall’originale, non dalla sua vita ma dalla sua “sopravvivenza”. Tant’è vero che la traduzione è più tarda dell’originale e nelle opere importanti, che non trovano il loro traduttore d’elezione al tempo in cui sorgono, segnala lo stadio della loro permanenza in vita. L’idea di vita e di sopravvivenza dell’opera d’arte va intesa non in senso metaforico ma del tutto concreto. All’impossibilità di attribuire la vita esclusivamente alla corporeità organica ci era già arrivato il pensiero dei tempi più oscurantisti. Ma non si tratterebbe di estendere la vita sotto lo scettro debole dell’anima, come ha tentato Fechner. Per tacere della possibilità di definire la vita sulla base degli ancor meno decisivi fattori animali, per esempio la sensazione, che la può caratterizzare solo occasionalmente. Si rende giustizia al concetto di vita solo riconoscendola a tutto ciò che ha una storia, che non è solo il suo scenario. Infatti, l’ambito della vita è ultimamente determinabile in base alla storia, non in base alla natura – per non dire della natura sfuggente della sensazione e dell’anima. Da qui deriva per il filosofo il compito di comprendere ogni vita naturale a partire dalla vita più ampia della storia. E non è almeno la sopravvivenza delle opere incomparabilmente più facile da riconoscere di quella delle creature? La storia delle grandi opere d’arte ne riconosce la discendenza dalle fonti, la formazione all’epoca dell’artista e il tempo – fondamentalmente eterno – della sopravvivenza presso le successive generazioni. Si chiama fama la sopravvivenza che viene alla luce. Traduzioni che siano più di semplici trasmissioni, emergono quando l’opera che sopravvive raggiunge la fama. Alla quale non servono le traduzioni, come sono soliti dire i cattivi traduttori, ma al contrario le cattive traduzione devono a essa la loro esistenza. In esse la vita dell’originale ultimamente e più estesamente si dispiega in forma sempre rinnovata.
Come quello di una vita specifica ed elevata, anche questo dispiegamento è determinato da una finalità altrettanto specifica ed elevata. Vita e finalità: il loro rapporto, apparentemente a portata di mano, ma da sempre sottratto alla cognizione, si dischiude solo là dove il fine, a cui collaborano tutte le singole finalità della vita, venga a sua volta ricercato non nella sfera della vita ma in una superiore. Tutte le manifestazioni finalistiche della vita, come la finalità in generale, non sono in ultima analisi finalizzate alla vita ma a esprimere la sua essenza. Ne rappresentano il significato. Così in definitiva la traduzione tende a esprimere il rapporto più intimo tra le lingue, che resta tuttavia segreto. La traduzione non può né rivelarlo né istituirlo ma può solo rappresentarlo, realizzandolo in forma germinale o intensiva. In verità, tentando di istituirlo in forma germinale, la rappresentazione di un significato è un modo specifico di rappresentazione, che non si riscontra nella vita non linguistica. La quale nelle analogie e nei segni possiede altre forme di riferimento, diverse dalla realizzazione intensiva, anticipatoria e allusiva. L’accennato intimo rapporto tra lingue è la specifica convergenza per cui le lingue non sono reciprocamente estranee ma, a priori e a prescindere dai loro rapporti storici, sono affini in ciò che vogliono dire.
Con questo tentativo di spiegazione sembra che dopo vani rigiri la trattazione sbocchi comunque di nuovo nella tradizionale teoria della traduzione. Se le traduzioni devono preservare la parentela delle lingue, come potrebbero se non trasmettendo nel modo più esatto possibile la forma e il senso dell’originale? Chiaramente sul concetto di esattezza la teoria tradizionale non avrebbe molto da dire, e in ultima analisi non saprebbe render conto di ciò che è essenziale nelle traduzioni. In verità, nella traduzione la parentela tra lingue si esprime in forma più profonda e determinata della vaga e superficiale somiglianza di due poesie. Per cogliere il rapporto autentico tra originale e traduzione bisogna rifarsi a considerazioni analoghe, nel loro intento, a quelle con cui la critica della conoscenza dimostra l’impossibilità della teoria della riproduzione. Come si dimostra che nella conoscenza non si dà né si può pretendere obiettività, che consista in semplici riproduzioni del reale, così si può dimostrare che non sarebbe possibile alcuna traduzione che mirasse alla somiglianza all’originale come sua essenza ultima. Infatti, nella sopravvivenza, che non si chiamerebbe così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, muta anche l’originale. C’è una post-maturazione anche delle parole consolidate. La tendenza del suo linguaggio poetico ai tempi dell’autore può in seguito esaurirsi e tendenze immanenti al testo possono emergere ex novo dalla forma data. Ciò che prima era nuovo, poi si logora; ciò che prima era in uso, poi suona arcaico. Cercare l’essenza di queste trasformazioni, nonché delle non meno continue trasformazioni di senso, nella soggettività dei posteri invece che nella vita propria della lingua e delle sue opere, significa scambiare essenza e fondamento della cosa, anche secondo il più rozzo psicologismo. In termini più rigorosi, significa negare per impotenza del pensiero uno dei processi di pensiero più potenti e fecondi. E la morta teoria della traduzione non si salverebbe neppure volendo fare dell’ultimo tratto di penna dell’autore il colpo di grazia dell’opera. Infatti, come il tono e il significato delle grandi poesie mutano integralmentenei secoli, così cambia anche la madrelingua dei traduttori. Anzi, mentre la parola del poeta sopravvive nella propria lingua, anche la più grande traduzione è destinata a essere presa dallo sviluppo della lingua e a perire nel suo rinnovamento. Lungi dall’essere la sorda equazione di due lingue morte, alla traduzione tocca il compito specifico di far attenzione alla post-maturità della parola straniera e alle doglie della propria.
Nelle traduzioni la parentela delle lingue non si annuncia come vaga somiglianza tra l’originale e la riproduzione. Evidentemente, in generale, la parentela non si accompagna necessariamente alla somiglianza. In proposito, in questo contesto il concetto di parentela concorda con il significato più ristretto di quello che in entrambi i casi può solo insufficientemente venir definito dall’uguaglianza della discendenza, benché il concetto di discendenza rimanga indispensabile proprio per determinare il significato più ristretto. Dove cercare la parentela di due lingue, prescindendo da quella storica? Non nella somiglianza delle poesie o delle parole. Piuttosto la parentela sovrastorica delle lingue poggia sul fatto che in ciascuna di esse, considerata come un tutto, si intenda una sola e identica cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna, se considerata singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzionalità reciprocamente integrate: la pura lingua. Infatti, mentre i singoli elementi – parole, frasi, nessi – di lingue straniere si escludono reciprocamente, tali lingue si integrano nelle loro intenzionalità. Per comprendere esattamente questa legge – una delle leggi fondamentali della filosofia del linguaggio – bisogna distinguere nell’intenzionalità tra ciò che si intende e il modo di intenderlo. In Brot e pain ciò che si intende è lo stesso, ma il modo di intenderlo è diverso. Nel modo di comprendere troviamo, infatti, che le due parole significano qualcosa di diverso in tedesco e in francese, che non sono intercambiabili per entrambi e che in ultima analisi tendono a escludersi. Ma a livello di ciò che si intende troviamo che esse, considerate in assoluto, significano la stessa e identica cosa. Mentre i modi di intendere in queste due parole si contrappongono reciprocamente, essi si integrano nelle due lingue di origine e precisamente si integrano in ciò che si intende. Nelle singole lingue non integrate ciò che si intende non è mai relativamente indipendente, per esempio nelle singole parole o frasi, ma è concepito in continuo divenire, finché dall’armonia dei modi di intendere non emerge come pura lingua. Fino ad allora rimane nascosto nelle lingue. Ma se le lingue crescono in questo modo fino alla fine messianica della loro storia, è alla traduzione, che si accende per la sopravvivenza delle opere e l’infinita risorgenza delle lingue, che tocca di nuovo mettere alla prova la sacra crescita delle lingue, testimoniando quanto il loro segreto sia lontano dalla rivelazione e quanto possa diventare presente nel sapere di tale lontananza.
Con tutto ciò si ammette che ogni traduzione sia solo un modo provvisorio di confrontarsi con l’estraneità della lingua. Soluzioni non temporanee né provvisorie, soluzioni attuali e definitive a questa estraneità sono interdette agli umani o comunque non sono perseguibili direttamente. Indirettamente è la crescita delle religioni che fa maturare nelle lingue il seme nascosto di una lingua più alta. Quindi, anche se non può pretendere che le sue creazioni durino, diversamente dall’arte, la traduzione non nasconde il proprio orientamento verso uno stadio ultimo e decisivo di ogni costrutto linguistico. Nella traduzione l’originale lievita in un’atmosfera linguistica più alta e pura, dove tuttavia non può vivere a lungo (e del resto è lungi dal raggiungerla in tutte le sue componenti formali), ma almeno vi allude in modo meravigliosamente penetrante come a una terra, promessa e interdetta, dove le lingue si conciliano e si compiono. Appena messo piede qui, la traduzione tocca ciò che ne fa qualcosa di più di una mera comunicazione. Più esattamente il nocciolo essenziale della traduzione si definirebbe come ciò che nella traduzione resta a sua volta intraducibile. Si tolga, cioè, per quanto possibile tutto ciò che attiene alla comunicazione e lo si traduca: rimarrà intangibile ciò a cui mirava il lavoro del vero traduttore. Che, a differenza della parola poetica, non è trasferibile dall’originale perché i rapporti tra contenuto e lingua sono diversi nell’originale e nella traduzione. Il primo costituisce una certa unità, come frutto e buccia, mentre la lingua della traduzione avvolge il contenuto come un mantello regale dalle ampie pieghe. Infatti, la traduzione significa una lingua superiore a quella che è e, quindi, resta inadeguata, estranea e persino violenta rispetto al proprio contenuto. Questa frattura ostacola ogni trasferimento, rendendolo al tempo stesso superfluo. Infatti, rispetto a un determinato aspetto del suo contenuto e da un determinato punto temporale della storia delle lingue, ogni traduzione rappresenta le traduzioni di un’opera in tutte le restanti lingue. In senso ironico, tradurre trapianta l’originale in un dominio linguistico definitivo, almeno nella misura in cui da lì le traduzioni non possono più spostarlo ma solo, rimanendo al suo interno, risollevarlo in alcune parti e non in altre. Non a caso la parola “ironico” ricorda giri di pensiero romantici. Prima degli altri i romantici sono penetrati nella vita delle opere, di cui la traduzione è la testimonianza più alta. Certo, non l’hanno riconosciuto, avendo rivolto tutta la loro attenzione alla critica che rappresenta un momento, anche se minore, nella vita delle opere. Ma, anche se non hanno saputo teorizzare direttamente la traduzione, il loro grande lavoro di traduttori non andava disgiunto dal sentimento dell’essenza e della dignità di questa forma. Tutto fa ritenere che questo sentimento non sia necessariamente più forte nel poeta, anzi, in lui come poeta trova ancor meno posto. Neppure la storia corrobora il pregiudizio tradizionale secondo cui i traduttori più importanti sarebbero poeti e i poeti trascurabili sarebbero traduttori mediocri. Alcuni dei maggiori, come Lutero, Voss, Schlegel, sono incomparabilmente più significativi come traduttori che come poeti; altri tra i massimi, come Hölderlin e George, non si possono intendere nel complesso delle loro creazioni solo come poeti – meno che mai come traduttori. Infatti, la traduzione è una forma propria. Parallelamente il compito del traduttore va inteso come compito a sé, nettamente distinto da quello del poeta.
Compito del traduttore è di trovare quell’intenzione rispetto alla lingua di arrivo dove si ridesti l’eco dell’originale. Qui sta il tratto assolutamente distintivo della traduzione rispetto all’opera poetica, la cui intenzione non è mai diretta alla lingua come tale nella sua totalità ma solo e immediatamente a certe connessioni linguistiche di contenuto [particolare]. La traduzione non si trova come la poesia dentro alla foresta del linguaggio, ma fuori e di fronte. Senza entrarvi richiama l’originale in quell’unico posto dove l’eco nella propria offra di volta in volta risonanza all’opera in lingua straniera. La sua intenzione non è rivolta solo a qualcosa d’altro rispetto alla poesia, precisamente alla lingua in toto a partire dalla singola opera d’arte in lingua straniera, ma è in se stessa diversa. Quella del poeta è un’intenzione ingenua, primitiva, intuitiva, quella del traduttore è derivata, ultima, tutta ideale. Il pensiero dominante di integrare le molte lingue in una sola, quella vera, colma il lavoro del traduttore. È un lavoro in cui le singole proposizioni, poesie, giudizi non arrivano mai a comprendersi – rimanendo così dipendenti dalla traduzione – ma è anche un lavoro in cui le lingue arrivano ad accordarsi, conciliate e integrate nel modo di significare. Ma se esistesse la lingua della verità, in cui si conservano senza tensioni e senza parole i segreti ultimi intorno a cui si affatica ogni pensiero, sarebbe questa lingua della verità la vera lingua. Proprio lei, nel cui presentimento giace la sola perfezione che il filosofo può sperare per sé, intensivamente latente nelle traduzioni. Non c’è musa né della filosofia né della traduzione, ma non sono filistee né l’una né l’altra, come pretendono di sapere certi artisti sentimentali. C’è, infatti, un ingegno filosofico, la cui specifica nostalgia è la lingua che si annuncia nella traduzione: “Les langue imparfaites en cela que plusieurs, manque la suprême: penser étant écrire sans accessoires, ni chuchotement mais tacite ancore l’immortelle parole, la diversité, sur terre, des idiomes empêche personne de proférer les mots qui, sinon se trouveraient par une frappe unique, elle-même la vérité”. Se in queste parole il pensiero di Mallarmé è a rigore alla portata del filosofo, allora con i suoi semi di un linguaggio siffatto la traduzione sta a metà strada tra poesia e scienza. Il conio del suo lavoro è a loro inferiore, ma non si imprime meno profondamente nella storia.
Visto così il compito del traduttore, le vie della traduzione rischiano di diventare più oscure e impenetrabili. Il compito di far maturare nella traduzione il seme della lingua pura sembra senza soluzione o, meglio, la soluzione sembra indeterminata. Infatti, non le si toglie forse il terreno di sotto i piedi quando la restituzione di senso cessa di essere decisiva? Detto in negativo, questo è il significato di quanto precede. Fedeltà e libertà – libertà della restituzione sensata e, al suo servizio, fedeltà alla parola – sono i termini tradizionali della discussione sulla traduzione. Ogni teoria della traduzione alternativa alla restituzione di senso sembra inservibile. L’applicazione tradizionale di questi concetti sembra costantemente e definitivamente antinomica. Infatti, quale contributo può dare la fedeltà alla restituzione di senso? La fedeltà di traduzione della singola parola non restituisce quasi mai interamente il senso che essa ha nell’originale. Infatti, il senso non si esaurisce in ciò che si intende nel significato poetico per l’originale, ma si acquisisce nel modo in cui in una determinata parola ciò che si intende si lega al modo di intendere. Di solito lo si esprime dicendo che le parole portano con sé una tonalità affettiva. La letteralità sintattica getta del tutto alle ortiche ogni restituzione di senso e rischia di portare dritto dritto all’inintelligibilità. Il XIX secolo aveva davanti agli occhi le traduzioni di Hölderlin di Sofocle come esempi mostruosi di tale letteralità. Si capisce da sé quanto la fedeltà alla restituzione della forma comprometta quella del senso. Nella stessa misura la promozione della letteralità è indeducibile dall’interesse per la conservazione del senso. Alla quale serve di più – ma alla poesia e alla lingua assai di meno – la libertà indisciplinata dei cattivi traduttori. Tale esigenza, il cui diritto è palese, ma la cui giustificazione è assai riposta, va necessariamente compresa sulla base di rapporti più validi. Come per ricomporre i frammenti di un vaso questi devono combaciare nei minimi particolari, pur senza assomigliarsi, così, invece di conformarsi al senso dell’originale, la traduzione deve amorevolmente ricostruirsi all’interno dei dettagli dei modi di significare della propria lingua al fine di rendere riconoscibile – come frammenti di uno stesso vaso – un frammento di una lingua più ampia. Proprio perciò la traduzione deve prescindere in grande misura dall’intenzione di comunicare qualcosa, un senso. L’originale è essenziale alla traduzione solo nella misura in cui ha già liberato il lavoro del traduttore dalla fatica imposta dal comunicare. Anche nel campo della traduzione vale en arché en o logos, all’inizio era la parola. Perciò la sua lingua può, anzi deve lasciarsi andare nei confronti del senso per non dar voce alla sua intentio di restituzione ma alla specifica intentio di armonia e di integrazione alla lingua in cui l’intentio del senso si comunica. Perciò, non è il vanto supremo di una traduzione, soprattutto se contemporanea, quella di leggersi come un originale della sua lingua. Anzi, il valore della fedeltà, garantito dalla letteralità, è di esprimere nell’opera l’aspirazione all’integrazione linguistica. La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra ma lascia che la lingua pura, quasi rafforzata dal proprio mezzo, cali interamente sull’originale. Ciò è possibile innanzitutto con la letteralità del trasferimento della sintassi. La letteralità dimostra che è la parola, non la frase, l’elemento originario della traduzione. Infatti, la frase è il muro davanti alla lingua originale, la letteralità l’arcata.
Se fedeltà e libertà di traduzione sono state da sempre considerate due tendenze contrapposte, la nostra più profonda interpretazione dell’una non sembra possa conciliarle entrambe, anzi al contrario sembra disconoscere all’altra ogni diritto. Infatti, a cosa si riferisce la libertà di traduzione se non alla restituzione di senso, che ora cesserebbe di essere normativa? Seppure fosse possibile identificare il senso di una formazione linguistica con la sua comunicazione, al di là di ogni comunicazione rimarrebbe vicinissima, anzi infinitamente lontana, chiara eppure nascosta, fragile eppure potente, qualcosa di ultimamente decisivo. In ogni lingua e in ogni formazione linguistica resta al di là del comunicabile l’incomunicabile, cioè qualcosa – a seconda dei punti di vista – di simboleggiante o di simboleggiato. Simboleggiante nelle formazioni linguistiche finite, ma simboleggiato nel divenire della lingua. Ciò che cerca di rappresentarsi, anzi di presentarsi, nel divenire della lingua è il nucleo della lingua pura. Che, seppure latente e frammentato, è tuttavia presente nella vita come simboleggiato e abita le formazioni linguistiche come funzione simboleggiante. Da una parte, nelle lingue l’essenza ultima della lingua, cioè la lingua pura, è legata al registro linguistico e alle sue trasformazioni, dall’altra, nelle creazioni si carica di un senso pesante ed estraneo. Liberarla da questo senso, fare del simboleggiante il simboleggiato stesso, riguadagnare la lingua pura al movimento linguistico in formazione, è questo l’unico e autorevole potere della traduzione. Nella lingua pura, che non significa più nulla e non esprime più nulla, come parola inespressiva e creativa, l’inteso di ogni lingua, ogni comunicazione, ogni senso e ogni intenzione toccano finalmente lo strato in cui sono portati a estinguersi. E proprio qui la libertà di traduzione afferma un nuovo e superiore diritto, non fondato sul senso della comunicazione, emancipare dal quale è compito della fedeltà. La liberta dà maggior prova di sé nell’amore della lingua pura verso la propria. Il compito del traduttore è di sciogliere nella propria la lingua pura che è stata esiliata, liberandola dalla prigione del rifacimento letterario. Per amor suo il traduttore rompe le barriere fatiscenti della propria lingua. Lutero, Voss, Hölderlin e George hanno ampliato i confini del tedesco. – Tutto ciò premesso, un paragone può riassumere il rapporto tra originale e traduzione in funzione del valore da attribuire al senso. Come la tangente tocca il cerchio di sfuggita in un punto e come il contatto – non il punto – le prescrive la legge di procedere all’infinito in linea retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso per proseguire poi per la sua strada secondo la legge della fedeltà nella libertà del movimento linguistico. Il vero significato di questa libertà, senza tuttavia nominarla né fondarla, l’ha indicato Rudolf Pannwitz in considerazioni contenute nella sua Crisi della cultura europea. Accanto alle tesi di Goethe nelle note sul Divan, sono probabilmente quanto di meglio è stato pubblicato in Germania sulla teoria della traduzione. Vi si dice che “le nostre traduzioni partono da un falso principio. Esse pretendono germanizzare l’indiano, il greco, l’inglese, invece di indianizzare, ellenizzare, anglizzare il tedesco. Rispettano molto di più gli usi della propria lingua che lo spirito dell’opera straniera… L’errore fondamentale del traducente è di attenersi allo stato contingente della propria lingua invece di lasciarsi potentemente commuovere dalla lingua straniera. Almeno traducendo da una lingua assai remota, chi traduce deve spingersi indietro fino agli elementi ultimi della lingua, dove parola, immagine e suono si fondono. Attraverso la lingua straniera deve allargare e approfondire la propria. Non si ha idea della misura in cui ciò sia possibile e di quanto una lingua si possa trasformare. Una lingua si distingue dall’altra come dialetto da dialetto, non quando la si prende alla leggera ma proprio sul serio”.
Fino a che punto la traduzione corrisponda all’essenza di questa forma è determinato oggettivamente dalla traducibilità dell’originale. Quanto minor valore e dignità ha la sua lingua, tanto più si impone la comunicazione e tanto meno c’è da guadagnare traducendo. Si arriva al punto in cui la sopravvalutazione del senso, lungi dal funzionare da leva per una traduzione pienamente formale, la pregiudica. Tanto più un’opera è di alta fattura, tanto meglio è traducibile nel fuggevolissimo contatto con il suo senso. Ovviamente questo vale per l’originale. Per contro le traduzioni si dimostrano intraducibili, non per il peso ma per l’estrema volatilità del riferimento al senso. Lo confermano, anche in altri aspetti essenziali, le traduzioni di Hölderlin, in particolare delle due tragedie di Sofocle, dove l’armonia delle lingue è così profonda che il senso è sfiorato solo come arpa eolica dal vento. Le traduzioni di Hölderlin sono prototipi della loro forma. Nei confronti delle traduzioni più perfette dei loro testi stanno nel rapporto del prototipo al modello. (Come mostra il confronto delle traduzioni di Hölderlin e di Borchardt della III Pitica di Pindaro). Proprio per questo sono abitate dal pericolo, originario e immenso, di ogni traduzione che le porte di una lingua così ampliata e posseduta si chiudano e il traduttore si chiuda nel silenzio. Le traduzioni sofoclee furono l’opera ultima di Hölderlin. Il senso vi precipita d’abisso in abisso fino a rischiare di perdersi nelle profondità senza fondo della lingua. Ma l’arresto c’è. Nessun testo lo concede al di fuori del sacro, dove il senso cessa di fungere da spartiacque tra i flussi della lingua e della rivelazione. Dove, senza mediazione di senso e nella propria letteralità, il testo appartiene direttamente alla vera lingua, alla verità o alla scienza, lì è traducibile per definizione. Non più per sé, ma in nome delle lingue. Di fronte a esso si richiede alla traduzione un’illimitata fiducia affinché, come in questa lingua e rivelazione, così in quella letteralità e libertà si ricompongano senza tensioni nella forma della versione interlineare. Infatti, in una certa misura, che è massima negli scritti sacri, tutte le grandi scritture contengono tra le righe la loro traduzione virtuale. L’interlinearità dei testi sacri è il prototipo o l’ideale di ogni traduzione.

Traduzione di Antonello Sciacchitano

 

Walter Benjamin (1932)
Walter Benjamin (1932)

Di seguito il testo originale:

Die Aufgabe des Übersetzers (1920)

Walter Benjamin

Nirgends erweist sich einem Kunstwerk oder einer Kunstform gegenüber die Rücksicht auf den Aufnehmenden für deren Erkenntnis fruchtbar. Nicht genug, daß jede Beziehung auf ein bestimmtes Publikum oder dessen Repräsentanten vom Wege abführt, ist sogar der Begriff eines ›idealen‹ Aufnehmenden in allen kunsttheoretischen Erörterungen vom Übel, weil diese lediglich gehalten sind, Dasein und Wesen des Menschen überhaupt vorauszusetzen. So setzt auch die Kunst selbst dessen leibliches und geistiges Wesen voraus – seine Aufmerksamkeit aber in keinem ihrer Werke. Denn kein Gedicht gilt dem Leser, kein Bild dem Beschauer, keine Symphonie der Hörerschaft.Gilt eine Übersetzung den Lesern, die das Original nicht verstehen? Das scheint hinreichend den Rangunterschied im Bereiche der Kunst zwischen beiden zu erklären. Überdies scheint es der einzig mögliche Grund, ›Dasselbe‹ wiederholt zu sagen. Was ›sagt‹ denn eine Dichtung? Was teilt sie mit? Sehr wenig dem, der sie versteht. Ihr Wesentliches ist nicht Mitteilung, nicht Aussage. Dennoch könnte diejenige Übersetzung, welche vermitteln will, nichts vermitteln als die Mitteilung – also Unwesentliches. Das ist denn auch ein Erkennungszeichen der schlechten Übersetzungen. Was aber außer der Mitteilung in einer Dichtung steht – und auch der schlechte Übersetzer gibt zu, daß es das Wesentliche ist – gilt es nicht allgemein als das Unfaßbare, Geheimnisvolle, ›Dichterische‹? Das der Übersetzer nur wiedergeben kann, indem er auch dichtet? Daher rührt in der Tat ein zweites Merkmal der schlechten Übersetzung, welche man demnach als eine ungenaue Übermittlung eines unwesentlichen Inhalts definieren darf. Dabei bleibt es, solange die Übersetzung sich anheischig macht, dem Leser zu dienen. Wäre sie aber für den Leser bestimmt, so müßte es auch das Original sein. Besteht das Original nicht um dessentwillen, wie ließe sich dann die Übersetzung aus dieser Beziehung verstehen? Übersetzung ist eine Form. Sie als solche zu erfassen, gilt es zurückzugehen auf das Original. Denn in ihm liegt deren Gesetz als in dessen Übersetzbarkeit beschlossen. Die Frage nach der Übersetzbarkeit eines Werkes ist doppelsinnig. Sie kann bedeuten: ob es unter der Gesamtheit seiner Leser je seinen zulänglichen Übersetzer finden werde? oder, und eigentlicher: ob es seinem Wesen nach Übersetzung zulasse und demnach – der Bedeutung dieser Form gemäß – auch verlange. Grundsätzlich ist die erste Frage nur problematisch, die zweite apodiktisch zu entscheiden. Nur das oberflächliche Denken wird, indem es den selbständigen Sinn der letzten leugnet, beide für gleichbedeutend erklären. Ihm gegenüber ist darauf hinzuweisen, daß gewisse Relationsbegriffe ihren guten, ja vielleicht besten Sinn behalten, wenn sie nicht von vorne herein ausschließlich auf den Menschen bezogen werden. So dürfte von einem unvergeßlichen Leben oder Augenblick gesprochen werden, auch wenn alle Menschen sie vergessen hätten. Wenn nämlich deren Wesen es forderte, nicht vergessen zu werden, so würde jenes Prädikat nichts Falsches, sondern nur eine Forderung, der Menschen nicht entsprechen, und zugleich auch wohl den Verweis auf einen Bereich enthalten, in dem ihr entsprochen wäre: auf ein Gedenken Gottes. Entsprechend bliebe die Übersetzbarkeit sprachlicher Gebilde auch dann zu erwägen, wenn diese für die Menschen unübersetzbar wären. Und sollten sie das bei einem strengen Begriff von Übersetzung nicht wirklich bis zu einem gewissen Grade sein? – In solcher Loslösung ist die Frage zu stellen, ob Übersetzung bestimmter Sprachgebilde zu fordern sei. Denn es gilt der Satz: Wenn Übersetzung eine Form ist, so muß Übersetzbarkeit gewissen Werken wesentlich sein.

Übersetzbarkeit eignet gewissen Werken wesentlich – das heißt nicht, ihre Übersetzung ist wesentlich für sie selbst, sondern will besagen, daß eine bestimmte Bedeutung, die den Originalen innewohnt, sich in ihrer Übersetzbarkeit äußere. Daß eine Übersetzung niemals, so gut sie auch sei, etwas für das Original zu bedeuten vermag, leuchtet ein. Dennoch steht sie mit diesem kraft seiner Übersetzbarkeit im nächsten Zusammenhang. Ja, dieser Zusammenhang ist um so inniger, als er für das Original selbst nichts mehr bedeutet. Er darf ein natürlicher genannt werden und zwar genauer ein Zusammenhang des Lebens. So wie die Äußerungen des Lebens innigst mit dem Lebendigen zusammenhängen, ohne ihm etwas zu bedeuten, geht die Übersetzung aus dem Original hervor. Zwar nicht aus seinem Leben so sehr denn aus seinem ›Überleben‹. Ist doch die Übersetzung später als das Original und bezeichnet sie doch bei den bedeutenden Werken, die da ihre erwählten Übersetzer niemals im Zeitalter ihrer Entstehung finden, das Stadium ihres Fortlebens. In völlig unmetaphorischer Sachlichkeit ist der Gedanke vom Leben und Fortleben der Kunstwerke zu erfassen. Daß man nicht der organischen Leiblichkeit allein Leben zusprechen dürfe, ist selbst in Zeiten des befangensten Denkens vermutet worden. Aber nicht darum kann es sich handeln, unter dem schwachen Szepter der Seele dessen Herrschaft auszudehnen, wie es Fechner versuchte; geschweige daß Leben aus den noch weniger maßgeblichen Momenten des Animalischen definiert werden könnte, wie aus Empfindung, die es nur gelegentlich kennzeichnen kann. Vielmehr nur wenn allem demjenigen, wovon es Geschichte gibt und was nicht allein ihr Schauplatz ist, Leben zuerkannt wird, kommt dessen Begriff zu seinem Recht. Denn von der Geschichte, nicht von der Natur aus, geschweige von so schwankender wie Empfindung und Seele, ist zuletzt der Umkreis des Lebens zu bestimmen. Daher entsteht dem Philosophen die Aufgabe, alles natürliche Leben aus dem umfassenderen der Geschichte zu verstehen. Und ist nicht wenigstens das Fortleben der Werke unvergleichlich viel leichter zu erkennen als dasjenige der Geschöpfe? Die Geschichte der großen Kunstwerke kennt ihre Deszendenz aus den Quellen, ihre Gestaltung im Zeitalter des Künstlers und die Periode ihres grundsätzlich ewigen Fortlebens bei den nachfolgenden Generationen. Dieses letzte heißt, wo es zutage tritt, Ruhm. Übersetzungen, die mehr als Vermittlungen sind, entstehen, wenn im Fortleben ein Werk das Zeitalter seines Ruhmes erreicht hat. Sie dienen daher nicht sowohl diesem, wie schlechte Übersetzer es für ihre Arbeit zu beanspruchen pflegen, als daß sie ihm ihr Dasein verdanken. In ihnen erreicht das Leben des Originals seine stets erneute späteste und umfassendste Entfaltung.

Diese Entfaltung ist als die eines eigentümlichen und hohen Lebens durch eine eigentümliche und hohe Zweckmäßigkeit bestimmt. Leben und Zweckmäßigkeit – ihr scheinbar handgreiflicher und doch fast der Erkenntnis sich entziehender Zusammenhang erschließt sich nur, wo jener Zweck, auf den alle einzelnen Zweckmäßigkeiten des Lebens hinwirken, nicht wiederum in dessen eigener Sphäre, sondern in einer höheren gesucht wird. Alle zweckmäßigen Lebenserscheinungen wie ihre Zweckmäßigkeit überhaupt sind letzten Endes zweckmäßig nicht für das Leben, sondern für den Ausdruck seines Wesens, für die Darstellung seiner Bedeutung. So ist die Übersetzung zuletzt zweckmäßig für den Ausdruck des innersten Verhältnisses der Sprachen zueinander. Sie kann dieses verborgene Verhältnis selbst unmöglich offenbaren, unmöglich herstellen; aber darstellen, indem sie es keimhaft oder intensiv verwirklicht, kann sie es. Und zwar ist diese Darstellung eines Bedeuteten durch den Versuch, den Keim seiner Herstellung ein ganz eigentümlicher Darstellungsmodus, wie er im Bereich des nicht sprachlichen Lebens kaum angetroffen werden mag. Denn dieses kennt in Analogien und Zeichen andere Typen der Hindeutung, als die intensive, d.h. vorgreifende, andeutende Verwirklichung. – Jenes gedachte, innerste Verhältnis der Sprachen ist aber das einer eigentümlichen Konvergenz. Es besteht darin, daß die Sprachen einander nicht fremd, sondern a priori und von allen historischen Beziehungen abgesehen einander in dem verwandt sind, was sie sagen wollen.

Mit diesem Erklärungsversuch scheint allerdings die Betrachtung auf vergeblichen Umwegen wieder in die herkömmliche Theorie der Übersetzung einzumünden. Wenn in den Übersetzungen die Verwandtschaft der Sprachen sich zu bewähren hat, wie könnte sie das anders als indem jene Form und Sinn des Originals möglichst genau übermitteln? Über den Begriff dieser Genauigkeit wüßte sich jene Theorie freilich nicht zu fassen, könnte also zuletzt doch keine Rechenschaft von dem geben, was an Übersetzungen wesentlich ist. In Wahrheit aber bezeugt sich die Verwandtschaft der Sprachen in einer Übersetzung weit tiefer und bestimmter als in der oberflächlichen und undefinierbaren Ähnlichkeit zweier Dichtungen. Um das echte Verhältnis zwischen Original und Übersetzung zu erfassen, ist eine Erwägung anzustellen, deren Absicht durchaus den Gedankengängen analog ist, in denen die Erkenntniskritik die Unmöglichkeit einer Abbildtheorie zu erweisen hat. Wird dort gezeigt, daß es in der Erkenntnis keine Objektivität und sogar nicht einmal den Anspruch darauf geben könnte, wenn sie in Abbildern des Wirklichen bestünde, so ist hier erweisbar, daß keine Übersetzung möglich wäre, wenn sie Ähnlichkeit mit dem Original ihrem letzten Wesen nach anstreben würde. Denn in seinem Fortleben, das so nicht heißen dürfte, wenn es nicht Wandlung und Erneuerung des Lebendigen wäre, ändert sich das Original. Es gibt eine Nachreife auch der festgelegten Worte. Was zur Zeit eines Autors Tendenz seiner dichterischen Sprache gewesen sein mag, kann später erledigt sein, immanente Tendenzen vermögen neu aus dem Geformten sich zu erheben. Was damals jung, kann später abgebraucht, was damals gebräuchlich, später archaisch klingen. Das Wesentliche solcher Wandlungen wie auch der ebenso ständigen des Sinnes in der Subjektivität der Nachgeborenen statt im eigensten Leben der Sprache und ihrer Werke zu suchen, hieße – zugestanden selbst den krudesten Psychologismus – Grund und Wesen einer Sache verwechseln, strenger gesagt aber, einen der gewaltigsten und fruchtbarsten historischen Prozesse aus Unkraft des Denkens leugnen. Und wollte man auch des Autors letzten Federstrich zum Gnadenstoß des Werkes machen, es würde jene tote Theorie der Übersetzung doch nicht retten. Denn wie Ton und Bedeutung der großen Dichtungen mit den Jahrhunderten sich völlig wandeln, so wandelt sich auch die Muttersprache des Übersetzers. Ja, während das Dichterwort in der seinigen überdauert, ist auch die größte Übersetzung bestimmt in das Wachstum ihrer Sprache ein-, in der erneuten unterzugehen. So weit ist sie entfernt, von zwei erstorbenen Sprachen die taube Gleichung zu sein, daß gerade unter allen Formen ihr als Eigenstes es zufällt, auf jene Nachreife des fremden Wortes, auf die Wehen des eigenen zu merken.

Wenn in der Übersetzung die Verwandtschaft der Sprachen sich bekundet, so geschieht es anders als durch die vage Ähnlichkeit von Nachbildung und Original. Wie es denn überhaupt einleuchtet, daß Ähnlichkeit nicht notwendig bei Verwandtschaft sich einfinden muß. Und auch insofern ist der Begriff der letzten in diesem Zusammenhang mit seinem engern Gebrauch einstimmig, als er durch Gleichheit der Abstammung in beiden Fällen nicht ausreichend definiert werden kann, wiewohl freilich für die Bestimmung jenes engern Gebrauchs der Abstammungsbegriff unentbehrlich bleiben wird. – Worin kann die Verwandtschaft zweier Sprachen, abgesehen von einer historischen, gesucht werden? In der Ähnlichkeit von Dichtungen jedenfalls ebensowenig wie in derjenigen ihrer Worte. Vielmehr beruht alle überhistorische Verwandtschaft der Sprachen darin, daß in ihrer jeder als ganzer jeweils eines und zwar dasselbe gemeint ist, das dennoch keiner einzelnen von ihnen, sondern nur der Allheit ihrer einander ergänzenden Intentionen erreichbar ist: die reine Sprache. Während nämlich alle einzelnen Elemente, die Wörter, Sätze, Zusammenhänge von fremden Sprachen sich ausschließen, ergänzen diese Sprachen sich in ihren Intentionen selbst. Dieses Gesetz, eines der grundlegenden der Sprachphilosophie, genau zu fassen, ist in der Intention vom Gemeinten die Art des Meinens zu unterscheiden. In »Brot« und »pain« ist das Gemeinte zwar dasselbe, die Art, es zu meinen, dagegen nicht. In der Art des Meinens nämlich liegt es, daß beide Worte dem Deutschen und Franzosen je etwas Verschiedenes bedeuten, daß sie für beide nicht vertauschbar sind, ja sich letzten Endes auszuschließen streben; am Gemeinten aber, daß sie, absolut genommen, das Selbe und Identische bedeuten. Während dergestalt die Art des Meinens in diesen beiden Wörtern einander widerstrebt, ergänzt sie sich in den beiden Sprachen, denen sie entstammen. Und zwar ergänzt sich in ihnen die Art des Meinens zum Gemeinten. Bei den einzelnen, den unergänzten Sprachen nämlich ist ihr Gemeintes niemals in relativer Selbständigkeit anzutreffen, wie bei den einzelnen Wörtern oder Sätzen, sondern vielmehr in stetem Wandel begriffen, bis es aus der Harmonie all jener Arten des Meinens als die reine Sprache herauszutreten vermag. So lange bleibt es in den Sprachen verborgen. Wenn aber diese derart bis ans messianische Ende ihrer Geschichte wachsen, so ist es die Übersetzung, welche am ewigen Fortleben der Werke und am unendlichen Aufleben der Sprachen sich entzündet, immer von neuem die Probe auf jenes heilige Wachstum der Sprachen zu machen: wie weit ihr Verborgenes von der Offenbarung entfernt sei, wie gegenwärtig es im Wissen um diese Entfernung werden mag.

Damit ist allerdings zugestanden, daß alle Übersetzung nur eine irgendwie vorläufige Art ist, sich mit der Fremdheit der Sprachen auseinanderzusetzen. Eine andere als zeitliche und vorläufige Lösung dieser Fremdheit, eine augenblickliche und endgültige, bleibt den Menschen versagt oder ist jedenfalls unmittelbar nicht anzustreben. Mittelbar aber ist es das Wachstum der Religionen, welches in den Sprachen den verhüllten Samen einer höhern reift. Übersetzung also, wiewohl sie auf Dauer ihrer Gebilde nicht Anspruch erheben kann und hierin unähnlich der Kunst, verleugnet nicht ihre Richtung auf ein letztes, endgültiges und entscheidendes Stadium aller Sprachfügung. In ihr wächst das Original in einen gleichsam höheren und reineren Luftkreis der Sprache hinauf, in welchem es freilich nicht auf die Dauer zu leben vermag, wie es ihn auch bei weitem nicht in allen Teilen seiner Gestalt erreicht, auf den es aber dennoch in einer wunderbar eindringlichen Weise wenigstens hindeutet als auf den vorbestimmten, versagten Versöhnungs- und Erfüllungsbereich der Sprachen. Den erreicht es nicht mit Stumpf und Stiel, aber in ihm steht dasjenige, was an einer Übersetzung mehr ist als Mitteilung. Genauer läßt sich dieser wesenhafte Kern als dasjenige bestimmen, was an ihr selbst nicht wiederum übersetzbar ist. Mag man nämlich an Mitteilung aus ihr entnehmen, soviel man kann und dies übersetzen, so bleibt dennoch dasjenige unberührbar zurück, worauf die Arbeit des wahren Übersetzers sich richtete. Es ist nicht übertragbar wie das Dichterwort des Originals, weil das Verhältnis des Gehalts zur Sprache völlig verschieden ist in Original und Übersetzung. Bilden nämlich diese im ersten eine gewisse Einheit wie Frucht und Schale, so umgibt die Sprache der Übersetzung ihren Gehalt wie ein Königsmantel in weiten Falten. Denn sie bedeutet eine höhere Sprache als sie ist und bleibt dadurch ihrem eigenen Gehalt gegenüber unangemessen, gewaltig und fremd. Diese Gebrochenheit verhindert jede Übertragung, wie sie sie zugleich erübrigt. Denn jede Übersetzung eines Werkes aus einem bestimmten Zeitpunkt der Sprachgeschichte repräsentiert hinsichtlich einer bestimmten Seite seines Gehaltes diejenigen in allen übrigen Sprachen. Übersetzung verpflanzt also das Original in einen wenigstens insofern – ironisch – endgültigeren Sprachbereich, als es aus diesem durch keinerlei Übertragung mehr zu versetzen ist, sondern in ihn nur immer von neuem und an andern Teilen erhoben zu werden vermag. Nicht umsonst mag hier das Wort ›ironisch‹ an Gedankengänge der Romantiker erinnern. Diese haben vor andern Einsicht in das Leben der Werke besessen, von welchem die Übersetzung eine höchste Bezeugung ist. Freilich haben sie diese als solche kaum erkannt, vielmehr ihre ganze Aufmerksamkeit der Kritik zugewendet, die ebenfalls ein wenn auch geringeres Moment im Fortleben der Werke darstellt. Doch wenn auch ihre Theorie auf Übersetzung kaum sich richten mochte, so ging doch ihr großes Übersetzungswerk selbst mit einem Gefühl von dem Wesen und der Würde dieser Form zusammen. Dieses Gefühl – darauf deutet alles hin – braucht nicht notwendig im Dichter am stärksten zu sein; ja es hat in ihm als Dichter vielleicht am wenigsten Raum. Nicht einmal die Geschichte legt das konventionelle Vorurteil nahe, demzufolge die bedeutenden Übersetzer Dichter und unbedeutende Dichter geringe Übersetzer wären. Eine Reihe der größeren wie Luther, Voß, Schlegel sind als Übersetzer ungleich bedeutender denn als Dichter, andere unter den größten, wie Hölderlin und George, nach dem ganzen Umfang ihres Schaffens unter dem Begriff des Dichters allein nicht zu fassen. Zumal nicht als Übersetzer. Wie nämlich die Übersetzung eine eigene Form ist, so läßt sich auch die Aufgabe des Übersetzers als eine eigene fassen und genau von der des Dichters unterscheiden.

Sie besteht darin, diejenige Intention auf die Sprache, in die übersetzt wird, zu finden, von der aus in ihr das Echo des Originals erweckt wird. Hierin liegt ein vom Dichtwerk durchaus unterscheidender Zug der Übersetzung, weil dessen Intention niemals auf die Sprache als solche, ihre Totalität, geht, sondern allein unmittelbar auf bestimmte sprachliche Gehaltszusammenhänge. Die Übersetzung aber sieht sich nicht wie die Dichtung gleichsam im innern Bergwald der Sprache selbst, sondern außerhalb desselben, ihm gegenüber und ohne ihn zu betreten ruft sie das Original hinein, an demjenigen einzigen Orte hinein, wo jeweils das Echo in der eigenen den Widerhall eines Werkes der fremden Sprache zu geben vermag. Ihre Intention geht nicht allein auf etwas anderes als die der Dichtung, nämlich auf eine Sprache im ganzen von einem einzelnen Kunstwerk in einer fremden aus, sondern sie ist auch selbst eine andere: die des Dichters ist naive, erste, anschauliche, die des Übersetzers abgeleitete, letzte, ideenhafte Intention. Denn das große Motiv einer Integration der vielen Sprachen zur einen wahren erfüllt seine Arbeit. Dies ist aber jene, in welcher zwar die einzelnen Sätze, Dichtungen, Urteile sich nie verständigen – wie sie denn auch auf Übersetzung angewiesen bleiben –, in welcher jedoch die Sprachen selbst miteinander, ergänzt und versöhnt in der Art ihres Meinens, übereinkommen. Wenn anders es aber eine Sprache der Wahrheit gibt, in welcher die letzten Geheimnisse, um die alles Denken sich müht, spannungslos und selbst schweigend aufbewahrt sind, so ist diese Sprache der Wahrheit – die wahre Sprache. Und eben diese, in deren Ahnung und Beschreibung die einzige Vollkommenheit liegt, welche der Philosoph sich erhoffen kann, sie ist intensiv in den Übersetzungen verborgen. Es gibt keine Muse der Philosophie, es gibt auch keine Muse der Übersetzung. Banausisch aber, wie sentimentale Artisten sie wissen wollen, sind sie nicht. Denn es gibt ein philosophisches Ingenium, dessen eigenstes die Sehnsucht nach jener Sprache ist, welche in der Übersetzung sich bekundet. »Les langues imparfaites en cela que plusieurs, manque la suprême: penser étant écrire sans accessoires, ni chuchotement mais tacite encore l’immortelle parole, la diversité, sur terre, des idiomes empêche personne de proférer les mots qui, sinon se trouveraient, par une frappe unique, elle-même matériellement la vérité.« Wenn, was in diesen Worten Mallarmé gedenkt, dem Philosophen streng ermeßbar ist, so steht mit ihren Keimen solcher Sprache die Übersetzung mitten zwischen Dichtung und der Lehre. Ihr Werk steht an Ausprägung diesen nach, doch es prägt sich nicht weniger tief ein in die Geschichte.

Erscheint die Aufgabe des Übersetzers in solchem Licht, so drohen die Wege ihrer Lösung sich um so undurchdringlicher zu verfinstern. Ja, diese Aufgabe: in der Übersetzung den Samen reiner Sprache zur Reife zu bringen, scheint niemals lösbar, in keiner Lösung bestimmbar. Denn wird einer solchen nicht der Boden entzogen, wenn die Wiedergabe des Sinnes aufhört, maßgebend zu sein? Und nichts anderes ist ja – negativ gewendet – die Meinung alles Vorstehenden. Treue und Freiheit – Freiheit der sinngemäßen Wiedergabe und in ihrem Dienst Treue gegen das Wort – sind die althergebrachten Begriffe in jeder Diskussion von Übersetzungen. Einer Theorie, die anderes in der Übersetzung sucht als Sinnwiedergabe, scheinen sie nicht mehr dienen zu können. Zwar sieht ihre herkömmliche Verwendung diese Begriffe stets in einem unauflöslichen Zwiespalt. Denn was kann gerade die Treue für die Wiedergabe des Sinnes eigentlich leisten? Treue in der Übersetzung des einzelnen Wortes kann fast nie den Sinn voll wiedergeben, den es im Original hat. Denn dieser erschöpft sich nach seiner dichterischen Bedeutung fürs Original nicht in dem Gemeinten, sondern gewinnt diese gerade dadurch, wie das Gemeinte an die Art des Meinens in dem bestimmten Worte gebunden ist. Man pflegt dies in der Formel auszudrücken, daß die Worte einen Gefühlston mit sich führen. Gar die Wörtlichkeit hinsichtlich der Syntax wirft jede Sinneswiedergabe vollends über den Haufen und droht geradenwegs ins Unverständliche zu führen. Dem neunzehnten Jahrhundert standen Hölderlins Sophokles-Übersetzungen als monströse Beispiele solcher Wörtlichkeit vor Augen. Wie sehr endlich Treue in der Wiedergabe der Form die des Sinnes erschwert, versteht sich von selbst. Demgemäß ist die Forderung der Wörtlichkeit unableitbar aus dem Interesse der Erhaltung des Sinnes. Dieser dient weit mehr – freilich der Dichtung und Sprache weit weniger – die zuchtlose Freiheit schlechter Übersetzer. Notwendigerweise muß also jene Forderung, deren Recht auf der Hand, deren Grund sehr verborgen liegt, aus triftigeren Zusammenhängen verstanden werden. Wie nämlich Scherben eines Gefäßes, um sich zusammenfügen zu lassen, in den kleinsten Einzelheiten einander zu folgen, doch nicht so zu gleichen haben, so muß, anstatt dem Sinn des Originals sich ähnlich zu machen, die Übersetzung liebend vielmehr und bis ins Einzelne hinein dessen Art des Meinens in der eigenen Sprache sich anbilden, um so beide wie Scherben als Bruchstück eines Gefäßes, als Bruchstück einer größeren Sprache erkennbar zu machen. Eben darum muß sie von der Absicht, etwas mitzuteilen, vom Sinn in sehr hohem Maße absehen und das Original ist ihr in diesem nur insofern wesentlich, als es der Mühe und Ordnung des Mitzuteilenden den Übersetzer und sein Werk schon enthoben hat. Auch im Bereiche der Übersetzung gilt: , im Anfang war das Wort. Dagegen kann, ja muß dem Sinn gegenüber ihre Sprache sich gehen lassen, um nicht dessen intentio als Wiedergabe, sondern als Harmonie, als Ergänzung zur Sprache, in der diese sich mitteilt, ihre eigene Art der intentio ertönen zu lassen. Es ist daher, vor allem im Zeitalter ihrer Entstehung, das höchste Lob einer Übersetzung nicht, sich wie ein Original ihrer Sprache zu lesen. Vielmehr ist eben das die Bedeutung der Treue, welche durch Wörtlichkeit verbürgt wird, daß die große Sehnsucht nach Sprachergänzung aus dem Werke spreche. Die wahre Übersetzung ist durchscheinend, sie verdeckt nicht das Original, steht ihm nicht im Licht, sondern läßt die reine Sprache, wie verstärkt durch ihr eigenes Medium, nur um so voller aufs Original fallen. Das vermag vor allem Wörtlichkeit in der Übertragung der Syntax und gerade sie erweist das Wort, nicht den Satz als das Urelement des Übersetzers. Denn der Satz ist die Mauer vor der Sprache des Originals, Wörtlichkeit die Arkade.

Wenn Treue und Freiheit der Übersetzung seit jeher als widerstrebende Tendenzen betrachtet wurden, so scheint auch diese tiefere Deutung der einen beide nicht zu versöhnen, sondern im Gegenteil alles Recht der andern abzusprechen. Denn worauf bezieht Freiheit sich, wenn nicht auf die Wiedergabe des Sinnes, die aufhören soll, gesetzgebend zu heißen? Allein wenn der Sinn eines Sprachgebildes identisch gesetzt werden darf mit dem seiner Mitteilung, so bleibt ihm ganz nah und doch unendlich fern, unter ihm verborgen oder deutlicher, durch ihn gebrochen oder machtvoller über alle Mitteilung hinaus ein Letztes, Entscheidendes. Es bleibt in aller Sprache und ihren Gebilden außer dem Mitteilbaren ein Nicht-Mitteilbares, ein, je nach dem Zusammenhang, in dem es angetroffen wird, Symbolisierendes oder Symbolisiertes. Symbolisierendes nur, in den endlichen Gebilden der Sprachen; Symbolisiertes aber im Werden der Sprachen selbst. Und was im Werden der Sprachen sich darzustellen, ja herzustellen sucht, das ist jener Kern der reinen Sprache selbst. Wenn aber dieser, ob verborgen und fragmentarisch, dennoch gegenwärtig im Leben als das Symbolisierte selbst ist, so wohnt er nur symbolisierend in den Gebilden. Ist jene letzte Wesenheit, die da die reine Sprache selbst ist, in den Sprachen nur an Sprachliches und dessen Wandlungen gebunden, so ist sie in den Gebilden behaftet mit dem schweren und fremden Sinn. Von diesem sie zu entbinden, das Symbolisierende zum Symbolisierten selbst zu machen, die reine Sprache gestaltet der Sprachbewegung zurückzugewinnen, ist das gewaltige und einzige Vermögen der Übersetzung. In dieser reinen Sprache, die nichts mehr meint und nichts mehr ausdrückt, sondern als ausdrucksloses und schöpferisches Wort das in allen Sprachen Gemeinte ist, trifft endlich alle Mitteilung, aller Sinn und alle Intention auf eine Schicht, in der sie zu erlöschen bestimmt sind. Und eben aus ihr bestätigt sich die Freiheit der Übersetzung zu einem neuen und höhern Rechte. Nicht aus dem Sinn der Mitteilung, von welchem zu emanzipieren gerade die Aufgabe der Treue ist, hat sie ihren Bestand. Freiheit vielmehr bewährt sich um der reinen Sprache willen an der eigenen. Jene reine Sprache, die in fremde gebannt ist, in der eigenen zu erlösen, die im Werk gefangene in der Umdichtung zu befreien, ist die Aufgabe des Übersetzers. Um ihretwillen bricht er morsche Schranken der eigenen Sprache: Luther, Voß, Hölderlin, George haben die Grenzen des Deutschen erweitert. – Was hiernach für das Verhältnis von Übersetzung und Original an Bedeutung dem Sinn verbleibt, läßt sich in einem Vergleich fassen. Wie die Tangente den Kreis flüchtig und nur in einem Punkte berührt und wie ihr wohl diese Berührung, nicht aber der Punkt, das Gesetz vorschreibt, nach dem sie weiter ins Unendliche ihre gerade Bahn zieht, so berührt die Übersetzung flüchtig und nur in dem unendlich kleinen Punkte des Sinnes das Original, um nach dem Gesetze der Treue in der Freiheit der Sprachbewegung ihre eigenste Bahn zu verfolgen. Die wahre Bedeutung dieser Freiheit hat, ohne sie doch zu nennen noch zu begründen, Rudolf Pannwitz in Ausführungen gekennzeichnet, die sich in der »krisis der europäischen kultur« finden und die neben Goethes Sätzen in den Noten zum »Divan« leicht das Beste sein dürften, was in Deutschland zur Theorie der Übersetzung veröffentlicht wurde. Dort heißt es: »unsre Übertragungen auch die besten gehn von einem falschen grundsatz aus sie wollen das indische griechische englische verdeutschen anstatt das deutsche zu verindischen vergriechischen verenglischen, sie haben eine viel bedeutendere ehrfurcht vor den eigenen Sprachgebräuchen als vor dem geiste des fremden werks … der grundsätzliche irrtum des übertragenden ist dass er den zufälligen stand der eignen sprache festhält anstatt sie durch die fremde sprache gewaltig bewegen zu lassen, er muss zumal wenn er aus einer sehr fernen sprache überträgt auf die letzten elemente der sprache selbst wo wort bild ton in eins geht zurück dringen er muss seine sprache durch die fremde erweitern und vertiefen man hat keinen begriff in welchem masze das möglich ist bis zu welchem grade jede sprache sich verwandeln kann sprache von sprache fast nur wie mundart von mundart sich unterscheidet dieses aber nicht wenn man sie allzu leicht sondern gerade wenn man sie schwer genug nimmt.«

Wie weit eine Übersetzung dem Wesen dieser Form zu entsprechen vermag, wird objektiv durch die Übersetzbarkeit des Originals bestimmt. Je weniger Wert und Würde seine Sprache hat, je mehr es Mitteilung ist, desto weniger ist für die Übersetzung dabei zu gewinnen, bis das völlige Übergewicht jenes Sinnes, weit entfernt, der Hebel einer formvollen Übersetzung zu sein, diese vereitelt. Je höher ein Werk geartet ist, desto mehr bleibt es selbst in flüchtigster Berührung seines Sinnes noch übersetzbar. Dies gilt selbstverständlich nur von Originalen. Übersetzungen dagegen erweisen sich unübersetzbar nicht wegen der Schwere, sondern wegen der allzu großen Flüchtigkeit, mit welcher der Sinn an ihnen haftet. Hierfür wie in jeder andern wesentlichen Hinsicht stellen sich Hölderlins Übertragungen, besonders die der beiden Sophokleischen Tragödien, bestätigend dar. In ihnen ist die Harmonie der Sprachen so tief, daß der Sinn nur noch wie eine Äolsharfe vom Winde von der Sprache berührt wird. Hölderlins Übersetzungen sind Urbilder ihrer Form; sie verhalten sich auch zu den vollkommensten Übertragungen ihrer Texte als das Urbild zum Vorbild, wie es der Vergleich der Hölderlinschen und Borchardtschen Übersetzung der dritten pythischen Ode von Pindar zeigt. Eben darum wohnt in ihnen vor andern die ungeheure und ursprüngliche Gefahr aller Übersetzung: daß die Tore einer so erweiterten und durchwalteten Sprache zufallen und den Übersetzer ins Schweigen schließen. Die Sophokles-Übersetzungen waren Hölderlins letztes Werk. In ihnen stürzt der Sinn von Abgrund zu Abgrund, bis er droht in bodenlosen Sprachtiefen sich zu verlieren. Aber es gibt ein Halten. Es gewährt es jedoch kein Text außer dem heiligen, in dem der Sinn aufgehört hat, die Wasserscheide für die strömende Sprache und die strömende Offenbarung zu sein. Wo der Text unmittelbar, ohne vermittelnden Sinn, in seiner Wörtlichkeit der wahren Sprache, der Wahrheit oder der Lehre angehört, ist er übersetzbar schlechthin. Nicht mehr freilich um seinet-, sondern allein um der Sprachen willen. Ihm gegenüber ist so grenzenloses Vertrauen von der Übersetzung gefordert, daß spannungslos wie in jenem Sprache und Offenbarung so in dieser Wörtlichkeit und Freiheit in Gestalt der Interlinearversion sich vereinigen müssen. Denn in irgendeinem Grade enthalten alle großen Schriften, im höchsten aber die heiligen, zwischen den Zeilen ihre virtuelle Übersetzung. Die Interlinearversion des heiligen Textes ist das Urbild oder Ideal aller Übersetzung.

 

Di Antonello Sciacchitano

Nato a San Pellegrino il 24 giugno 1940. Medico e psichiatra, lavora a Milano come psicanalista di formazione lacaniana; riceve domande d'analisi in via Passo di Fargorida, 6, tel. 02.5691223: E' redattore della rivista di cultura e filosofia "aut aut", fondata da Enzo Paci nel 1951.

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