domenica 13 settembre 2009

La moglie di Lippi, le mogli di Capello e il Pippero disvelato

(Gurrado per Quasi Rete)

Nessuno sano di mente che segua il calcio inglese quest’anno può rifiutarsi di tifare per il Manchester City, a meno che il suo nuovo pecunioso e oleoso emiro proprietario non decida di rivoltare le sorprendenti vittorie dei celestini a maggior gloria di Allah. Che poi le vittorie siano sorprendenti fino a un certo punto per una squadra che quest’estate ha comprato Adebayor e Tévez con gli ultimi petrolspiccioli che le restavano è fuori discussione; ma ammetterete che un 4-2 sull’Arsenal come quello di ieri pomeriggio avrebbe fatto gola a molte squadre che in passato hanno speso e speso senza mai cavare mezzo ragno dal buco (chiedete a un tale petroliere Moratti, il quale notoriamente perdeva perché la Juventus rubava anche quando lo scudetto lo vincevano la Roma o il Milan).

Le quattro vittorie su quattro del Manchester City, che gli negano il primo posto in classifica solo per via di una gara in meno, fanno tirare un sospirone a chiunque come me credeva che la Premier League sarebbe rimasta faccenda per le quattro grandi squadre da qui all’eternità; anzi, considerati i risultati dell’Arsenal nell’ultimo paio d’anni, diciamo per le tre grandi e mezza. Ieri ad esempio è rotolata la testa del Tottenham, altra compagine che finora s’era difesa gran bene vincendole tutte a fronte di un campionato scandaloso come quello scorso (sarà contento Andrea Aloi, l’ex direttore del Guerin Sportivo, che non ha mai fatto mistero della sua fede d’oltremanica). Il Manchester United ha vinto con ampio margine, 1-3 che alfine risulta perfino piuttosto tirchio, sul venerabile terreno di White Hart Lane: e per quanto non abbia segnato il più decisivo in campo è risultato Dimitar Berbatov, ciò che dovrebbe far ricredere i sostenitori dell’incommensurabile ritardo accumulato dalla Serie A rispetto ai Granbritannici.

Ora, in tempi non sospetti Elio e le Storie Tese stornellavano: “Evviva l’Italia evviva la Bulgaria, che ci ha fatto dono del Pippero”. E chi è questo Pippero, eroe eponimo del ballo che lo omaggiava unendo le dita e ruotando le falangi? Mercoledì scorso, per subitanea illuminazione, l’ho capito io: Dimitar Berbatov appunto, che si aggirava per l’Olimpico di Torino tentando tiri più grandi di lui ma ricusando nobilmente gli appoggi semplici, ignorando i compagni di squadra se non al momento di mandarli affanplodviv, sputacchiando qua e là, ripassandosi le mani nel caschetto unto e visibilmente rimpiangendo di essere nato bulgaro. Punta avanzata di una nazionale di incapaci, denunziavano gli sguardi da salice piangente che ogni tanto lanciava alla telecamera; incapace sarai tu, bulgaro d’un Pippero, che invece di fingere di giocare a calcio dovresti studiarti un po’ di storia. Impara dalla tua nazionale che ai Mondiali del 1966 finì in un girone impossibile e le prese da Brasile, Ungheria e Portogallo in stretto ordine cronologico, ma almeno alla fase finale c’era arrivata estromettendo il Belgio. Impara della tua nazionale che inchiodò sul pareggio sopraelevato gli azzurri campioni del mondo all’inaugurazione di Mexico ’86. Impara della tua nazionale che in America fu presa per mano da Hristo Stoichkov e portata fino alle semifinali dove si arrese al codino apostata di Roberto Baggio nonostante la strenua opposizione di Sacchi, l’Arrigo Furioso dei tempi andati? Altro che incapaci quelli; saresti capace di farlo tu? Con Stoichkov sembrarono campioni anche Trifon Ivanov dalla palpebra perpetuamente a mezz’asta e Yordan “Famiglia Addams” Lechkov, quello con la faccia di Lerch innestata sul cranio dello Zio Fester. Se Berbatov è decisivo in Premier League, la distanza tecnica della Serie A non può essere così distante: in fin dei conti noi abbiamo Eto’o e Langella che funzionano entrambi meglio.

Invece si riempiono la bocca, loro, i Granbritannici: e una volta scoperto che si sono qualificati al Mondiale grazie al decisivo apporto di un tecnico italiano non digeriscono che costui fosse il medesimo che tempo addietro lasciò che Peter Shilton carponasse inutilmente alla rincorsa della palla del primo successo maccarone sul sacro suolo di Wembley (altri ne verranno). Allora s’inventano, come Barbara Ellen sull’Observer di oggi, che don Fabio è un maschilista perché ha gentilmente richiesto alle Wags di restare a calzetta per tutto il tempo del Mondiale, ché la trasferta in Sudafrica sarà lavoro e non gita di piacere. Negli stessi giorni, su Facebook, gli Italiani hanno fatto circolate illazioni sulla frequentazione fra il giovine Cassano e la signora Lippi dalle quali mi dissocio e che non mi sembrano degne di una nazione evoluta come la nostra, almeno calcisticamente.

Come il miglior Churchill, si parva licet, mi sembra che Capello si sia limitato a promettere sangue, sudore, lacrime e calci d’angolo. Invece a Barbara Ellen pare che l’ostracismo nei confronti delle Wags – per chi non masticasse acronimi, Wives And GirlfriendS, mogli e fidanzate – sia il sintomo del maschilismo italico: rivendica infatti che gli Inglesi abbiano perso lo scorso Mondiale non per i troppi servigi resi dalle proprie dame o perché Beckham giocasse indossando le mutande della moglie, macché; bensì per manifesta incapacità da calciatori (Gerrard? Lampard? Terry? la nazionale più forte degli ultimi quarant’anni?), per manifesta incapacità da Inglesi (che popolo masochista) e per manifesta capacità da maschi (perché dovete sapere che in Inghilterra il femminismo è dittatura; ieri il Guardian ospitava un’intervista alla scrittrice che questa settimana vincerà il Booker Prize ma della quale ciò nondimeno non ricordo il nome già ora, e dichiarava giuliva che “a chi non è femminista manca il cervello” – si potrebbe ribadirle che a chi è troppo femminista manca avec toute évidence qualcos’altro, ma sorvoliamo).

D’altra parte lo dice Matteo 7, 18 che un albero cattivo non può fare frutti buoni; e infatti poche pagine dopo lo stesso Observer ospita un resoconto accuratamente offensivo nei confronti di Mike Bongiorno. Il responsabile, caso mai voleste infilargli uno stecchino nel citofono alle due di notte, si chiama John Hooper. La mezza pagina consiste in un enorme foto di Berlusconi che parla di fronte alla bara davanti a Fiorello, Fabio Fazio, Alba Parietti e gli stendardi della Juventus e della Scuola di sci del Cervino. Molto più piccola, una foto di Mike Bongiorno evidentemente fuori scena con il Gabibbo, una bonazza in bikini e un’altra tale vestita da robot. L’argomentazione dell’articolo era che gli Italiani sono un popolo di teledipendenti rintontiti visto che consentono i funerali di Stato per qualcuno che non è morto in una disgrazia o da eroe – il raffronto citato è Nicola Calipari – ma che era stato il principale presentatore delle reti di Berlusconi.

Non ci credete? Nemmeno io, ho dovuto rileggerlo tre volte. C’è scritto: “Only perhaps in Berlusconi’s Videocracy could a state funeral be accorded to a TV quizmaster”. Non traduco perché se no mi viene da prendere a pedate il quotidiano e non è una maniera santa di passare la domenica. E giuro, non è che stavolta sia in questione Berlusconi o il fatto che per John Hooper il funerale di Mike Bongiorno sia un’arma di distrazione di massa per stornare lo sguardo dalla querelle con Fini – il quale, intanto, con le sue ultime sortite ha guadagnato la fiducia della stampa internazionale: prima era nudo e crudo the post-fascist speaker at the lower house, il presidente della Camera bassa, ora è stato promosso al rango di “post-fascist” speaker at the lower house con le virgolette, che è tutt’altra cosa.

Altrove ho spiegato che Mike Bongiorno non è un personaggio televisivo ma l’ultimo eroe risorgimentale, colui che ha concluso a livello cultural-popolare l’Unità d’Italia fatta geograficamente da Garibaldi e linguisticamente dalla Prima Guerra Mondiale. Sperare che i Granbritannici lo capiscano sarebbe troppa grazia. Da Italiano all’estero desidererei soltanto che gli Italiani capiscano loro che quando da queste parti si colpisce Berlusconi non lo si fa perché è lui ma perché per antico pregiudizio si vuole svilire tutto ciò che sia tricolore, bello o brutto che sia: sul Guardian a luglio Alexander Chancellor auspicava un nuovo terremoto a L’Aquila durante il G8, a settembre Tanya Gold si augurava che Cacciari annegasse con tutta Venezia. Mike Bongiorno per noi è il rimpianto di un’Italia migliore, capace di essere unita indipendentemente da Berlusconi o dalla Juventus (o da Alba Parietti); per i Granbritannici è solo un’altra tacca sul fucile in un’interminabile faida razzista. Se non lo capiamo facciamo la fine di Berbatov: qui siamo ancora ai tempi di Chinaglia, all’armi!

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