Attachment parenting:
Crescere i figli con empatia


Autrice: Antonella Sagone
Psicologa - Consulente Professionale in allattamento materno (IBCLC)

Che cos'è l'Attachment Parenting? La comune traduzione in un brutto italiano, "Genitori con Attaccamento", fa pensare erroneamente a genitori iperprotettivi, che stanno incollati ai figli, e dà un appiglio ai detrattori di questo approccio, per il quali si tratta di un modo per viziare i bambini. Ma in effetti l'Attachment Parenting non fa in fondo che ratificare una legge di natura: i piccoli hanno bisogno della presenza amorevole e costante dei loro genitori, e questi sentono istintivamente il desiderio di essere loro accanto, di toccarli, di tenerli in braccio, di rispondere prontamente alle loro richieste.

Un concetto semplice, che ha l'ovvietà biologica di ogni meccanismo di sopravvivenza della specie: nutrirsi, proteggersi dai pericoli, riprodursi… e il nucleo familiare, il legame madre-figlio è proprio il cardine di questa catena di sopravvivenza che, generazione dopo generazione, ha portato fin qui noi esseri umani.

Un concetto semplice… eppure in questa nostra società, lontanissima dai bisogni umani fondamentali, quest'idea ha bisogno di essere formalizzata, spiegata, ribadita; le madri devono lottare per poterla mettere in atto, spesso fra mille ostacoli materiali e sociali.

I genitori di oggi si trovano di fronte a un paradosso: nel momento in cui scelgono la via più "giusta" (più armonica con i bisogni del bambino e con i propri istinti) si trovano ad essere "sbagliati" agli occhi della società.

Viviamo nella cultura del distacco: intere generazioni, nell'ultimo secolo, sono state cresciute in base a teorie e pratiche - lasciar piangere, attenersi a degli orari, dormire da soli, non prendere in braccio - assolutamente prive di senso dal punto di vista biologico ed emotivo; ed ancora oggi le madri che seguono i loro istinto, coccolando, allattando a richiesta, dormendo insieme ai loro cuccioli, sono messe (e si mettono) in dubbio di essere "cattivi genitori"… le loro pratiche, semplici e naturali, suscitano sconcerto, allarme, persino aperta riprovazione. Perché tanta sfiducia nelle risorse di madri e figli? Perché tante paure di viziare, fuorviare, "essere controllati" da minuscoli esseri umani appena affacciati alla scena della vita?

Per comprendere il perché della resistenza all'idea dell'Attachment Parenting, bisogna andare a vedere più da vicino la nostra "cultura del distacco".

La società del distacco

La nostra società e cultura teorizza ed apprezza il distacco e la separazione. All'origine di questo atteggiamento c'è da un lato l'aspirazione ad un modello umano basato sull'autodisciplina; dall'altro la diffidenza verso tutte quelle manifestazioni umane che sfuggono ad un controllo, una definizione e una previsione certa.

La tendenza a controllare e quella ad essere controllati va insieme: adulti cresciuti con questa filosofia sono più facili a conformarsi a norme dettate dall'esterno e ad accettare acriticamente definizioni della realtà imposte da chi possiede autorità; inoltre si sentono minacciati dall'esistenza di comportamenti "fuori della norma", e sentono il bisogno di riportarli entro gli schemi noti. Coloro che hanno da bambini sofferto per adeguarsi alle aspettative degli adulti, andando contro i propri istinti, oggi, adulti a loro volta, desiderano negare questa sofferenza e, riaffermando la bontà dei metodi che hanno subìto, perpetuarla nelle nuove generazioni.

L'approccio genitoriale "distaccato" discende da questa cultura, e si basa su una serie di premesse negative. I genitori, nel decidere ciò che è giusto o benefico per il bambino, non si basano sulle loro percezioni e intuizioni, né sull'osservazione del bambino stesso: il centro generatore delle regole da seguire è esterno alla famiglia, un insieme di norme eterocentriche da applicare rigidamente, senza variazioni od eccezioni. Si dà particolare importanza alla "coerenza" (cioè all'applicazione sempre uguale della regola, a prescindere dalla situazione) e alla ripetizione come mezzo per fissare la norma nel comportamento del bambino. Dietro questo criterio c'è l'idea che né il bambino, né i suoi genitori, siano in grado di cavarsela da soli, percepire correttamente le proprie esigenze, fare delle scelte, sviluppare delle soluzioni appropriate per il benessere familiare. Così i genitori, convinti di non essere competenti su come allevare bambini, si affidano alla guida di "esperti" esterni alla famiglia stessa, e poco incide sul risultato finale se queste voci autorevoli provengono da un pediatra, uno psicologo, un libro di puericultura o una rivista commerciale per neo-mamme.

Un'altra idea sottintesa è che i genitori, ma soprattutto i bambini, tendono istintivamente verso l'errore. I bisogni del neonato sono "capricci", i suoi comportamenti sono pericolosi per sé oppure socialmente inaccettabili, maliziosi oppure selvaggi. Allevare un bambino significa, secondo questa accezione, fare la guerra a tutto ciò che in lui non risulta conforme al "giusto" modello di essere umano; significa ostacolare, deviare, correggere i suoi comportamenti spontanei finché il bambino non si adegua ad uno stile e delle abitudini ritenute "normali". è un metodo pedagogico lineare, un percorso a senso unico che va dall'adulto al bambino. Viene definito dalle istituzioni didattiche "scolarizzazione", da certi operatori psicologici "acquisizione dell'esame di realtà" e dai pediatri "regolarizzare il bambino"; ma la cruda verità è che si tratta di un lento lavoro di condizionamento teso a modellarlo, come fosse "materia grezza", entro una forma accettabile per la società.

L'ideologia sottesa a questo approccio si esprime in una serie di affermazioni categoriche, che i nostri genitori, e le madri in particolare, si sentono ripetere continuamente da fonti più o meno autorevoli:

  • il bambino ha bisogno di essere abituato ad una regolarità delle sue funzioni fisiologiche (mangiare, dormire, evacuare);
  • il bambino non sa di cosa ha veramente bisogno per il suo benessere fisico e psicologico, per cui gli va insegnato a sopportare di non essere accontentato, e va "aiutato" invece ad accettare le cure fisiche e psicologiche che lo renderanno sano e felice;
  • il bambino tende a opporre resistenza al superamento delle tappe di crescita (mangiare, saper stare da solo, apprendere nozioni) e quindi va esercitata una forzatura perché progredisca: insomma matura e diventa autonomo perché viene costretto;
  • Il mondo è pericoloso e difficile, e la vita è una lotta per l'esistenza: quindi il bambino va temprato a questa lotta altrimenti non apprenderà a difendersi e sopravvivere;
  • doloroso: chi non soffre non cresce.

Cosa c'è di vero in queste teorie? Se passato al vaglio dei fatti, ben poco di ciò che viene affermato risulta vero. Popolazioni e culture nelle quali i bambini sono trattati per quello che sono - esseri dipendenti dagli adulti, bisognosi di presenza costante e affettuose cure - e accuditi con tenerezza e rispetto dei loro ritmi naturali, producono adulti almeno altrettanto maturi ed autonomi, se non di più, di quelle che teorizzano la bontà delle regole fisse. Il modello parentale basato sulla separazione precoce del neonato dalla madre, l'allattamento ad orari, lo svezzamento precoce (mesi invece di anni), il dormire in culle ed in stanze separate, il non rispondere al pianto e alle richieste di contatto del bambino se non entro schemi prestabiliti (l'ora del pasto, l'accudimento di un bambino malato): tutto questo costituisce un "corpus" di comportamenti presenti solo in una minoranza di paesi industrializzati. Sono atteggiamenti molto recenti nella storia dell'umanità, e se guardiamo ai grandi uomini del passato, le cui virtù sono così esaltate nei nostri libri di storia, dobbiamo ricordarci che la maggioranza di loro è stata cresciuta a stretto contatto con la mamma, allattata per uno o più anni ed ha dormito per diversi anni nel letto materno.

Da dove provengono allora tali teorie, e da dove prendono forza e legittimazione? Esse hanno precise radici storiche e culturali.

Le radici delle teorie pedagogiche

Alla fine del secolo scorso (in particolare nell'Europa continentale ad opera del pedagogo Schroeber, ed in America da parte del pediatra H. Holt) prese piede fra medici e puericultori l'idea che avere troppi riguardi per i bambini fosse inutile e pericoloso, significasse "indulgere" in debolezze che avrebbero a loro volta indebolito il carattere del piccolo, incoraggiando "cattive abitudini" difficilissime poi da sradicare. L'immagine del giardiniere che semina, sradica inesorabilmente le erbacce e pota senza pietà "per il bene" della tenera piantina, è in effetti la metafora più usata nei manualetti di questi due puericultori: manuali che, a cavallo dei due secoli, erano pressoché in ogni casa dove ci fosse un bambino.

Queste idee ricevettero nuova linfa e legittimazione da una teoria che, all'inizio del '900, si stava affermando in America ed Europa: il Behaviorismo, o teoria comportamentista. I behavioristi adottarono un modello meccanicistico dell'individuo, visto come "scatola nera" nella quale entra uno stimolo ed esce una risposta. Poiché solo il comportamento è direttamente osservabile, ciò che non poteva essere oggettivamente visto - i desideri, i sentimenti - non doveva interessare lo studioso, sostanzialmente non esisteva. Secondo questa teoria, ripetendo sistematicamente uno stimolo di un certo tipo si stabilisce un'abitudine chiamata riflesso condizionato. Dosando ad arte gli stimoli piacevoli o sgradevoli, i behavioristi ritenevano che il comportamento potesse essere modellato nel modo ritenuto più vantaggioso.

è a causa di tali teorie che vennero sostenuti metodi pedagogici nei quali si sconsigliava, ad esempio, di prendere in braccio un bambino quando piangeva, perché questo (rinforzo positivo) lo avrebbe incoraggiato a piangere di nuovo; e inoltre si raccomandava che i bambini venissero "abituati" a situazioni sgradite, come lo stare da soli, non richiedere la presenza dei genitori durante la notte, restare al buio.

I mezzi di informazione, che in genere si fanno portavoce della cultura dominante, spesso rilanciano le teorie behavioriste ma assolutizzandole con frasi come "la Psicologia ha dimostrato che" ovvero "gli Psicologi affermano", cosicché sembra quasi che tali teorie non siano frutto di opinioni e linee di pensiero specifiche, ma generali e universalmente accettate. Occorre invece divenire consapevoli che come non c'è un'unica teoria pedagogica, così non c'è una sola scuola psicologica. Esistono moltissime scuole con teorie e approcci diversissimi fra loro, e in ciascuna corrente esistono singoli psicologi, che la possono pensare anche in modo molto diverso fra loro su cosa significa essere "buoni genitori".

Comunque ci sono anche numerosi autori che hanno affermato esplicitamente la giustezza e il diritto, per madri e bambini, di prendersi i loro spazi e i loro tempi. Per esempio, prendiamo il concetto psicoanalitico della frustrazione come stimolo allo sviluppo della personalità: viene spesso tirato in ballo per giustificare ogni sorta di costrizione e disattenzione dei bisogni primari del bambino, eppure Freud non ha mai detto né che la frustrazione fosse l'unico modo per crescere, né che il processo di crescita andasse forzato. Piuttosto, altri psicoanalisti, come Stern o Winnicott, hanno detto qualcosa in più. Entrambi hanno descritto il rapporto speciale che si stabilisce fra la mamma e il suo piccolo, come tale legame sia perfetto per soddisfare i bisogni vitali di entrambi, e quanto sia fragile alle interferenze esterne; entrambi hanno rilevato l'importanza del "contenimento" materno, cioè la funzione di fare da tramite fra il mondo esterno e il bambino, proteggendo le sue necessità e colmando le sue inadeguatezze. Le madri fanno questo istintivamente: ciò che chi sta al di fuori della relazione madre-figlio vede come ansia o attaccamento esagerato, è invece la naturale sintonizzazione che ogni mamma ha sul suo piccolo, e che le permette di adempiere istintivamente alla sua funzione di contenere e accudire.

Winnicott sottolinea come il bambino abbia bisogno di tempo per maturarsi. All'inizio i bisogni sono urgenti, ed egli non è in grado di sopportare né biologicamente né emotivamente l'attesa; se è sottoposto a una frustrazione quando non è pronto a sopportarla, prova una "angoscia impensabile" - perde cioè il controllo delle sue emozioni e della percezione della realtà, il suo Io si disgrega e lui cade in preda al panico. Il ripetersi di esperienze negative può ostacolare il normale strutturarsi dell'Io, lasciando la psiche del bambino fragile, ritardando il suo adattamento alla realtà, facendogli prolungare la fase di dipendenza dalla madre. All'opposto, il contenimento, risparmiando al bambino le angosce impensabili, gli permette di costruirsi un solido equilibrio dell'Io e fornisce le basi della salute mentale.

Un'altra teoria psicologica che fornisce fondamenti validi a quanti sostengono l'approccio dell'Attachment Parenting ci viene fornita da Rogers. L'approccio Rogersiano è al polo opposto di quello behaviorista: la persona è rispettata in quanto individuo unico, con la sua storia e il suo percorso, e pertanto ritenuta la più competente su tutto ciò che riguarda se stessa. Ogni individuo tende spontaneamente a sviluppare tutte le sue potenzialità in modo non solo da soddisfare i suoi bisogni essenziali, ma anche espandere il suo campo d'azione e d'esperienza e le sue capacità (tendenza attualizzante). L'empatia come capacità di sintonizzarsi sui vissuti altrui e comprenderli a livello profondo, insieme ad un atteggiamento non giudicante di ascolto rispettoso e di fiduciosa attesa, sono i comportamenti che stimolano al massimo nell'altro la capacità di "attualizzare" il suo potenziale.

Se applichiamo questo punto di vista al mondo della pedagogia, riconosciamo forti somiglianze con l'approccio dell'Attachment Parenting, che appunto rispetta i modi e i tempi individuali del neonato e del bambino, segue fiduciosamente le sue richieste perché ritenute naturali e legittime, ed evita di interferire nell'interazione fra madre e figlio, ritenuti più che competenti a sviluppare fra loro un legame e una comunicazione efficace. La tendenza "attualizzante" del bambino è riconosciuta nella sua capacità di autoregolazione e di sviluppo, che non ha bisogno di forzature; l'empatia, e un atteggiamento non giudicante di incoraggiamento, sono ritenuti i mezzi più efficaci per stimolare nel bambino comportamenti positivi e maturazione sociale.

Due modelli a confronto

Approfondendo la contrapposizione che sembra esistere fra chi crede nel modello "genitori con attaccamento" e chi invece è convinto della validità di un approccio "distaccato", ci si rende conto di essere di fronte non solo a due modelli pedagogici, ma a due modi di vedere la vita, le relazioni con gli altri, il rapporto con la società.

Una chiave per delineare meglio queste due visioni opposte ci viene da un altro psicologo, Eric Fromm. In uno dei suoi libri più famosi, descrive come ci possano essere due opposte modalità esistenziali nell'uomo: Essere e Avere. Nella modalità dell'essere l'individuo è centrato su ciò che è momento per momento, nel processo dinamico d'interazione con il suo ambiente, che lo porta a evolversi e maturare; nella modalità dell'avere invece l'individuo si valorizza per ciò che possiede, è ciò che ha.

Direttamente collegato alla modalità dell'avere è il fenomeno psicologico dell'alienazione, cioè della trasformazione di parti di sé in oggetti estranei. Processi interni vengono trasformati in concetti "oggettivi" e proiettati al di fuori di sé: non si è più tristi, malati, innamorati: si "ha" una depressione, una malattia, un amore. Questi sentimenti vengono identificati con oggetti per poterli meglio "controllare" (così si possono avere medicine, un partner, ricchezza ecc..) e, attraverso il possesso, riappropriarsi di quelle parti del sé che si erano alienate. Mentre per chi è nella modalità dell'essere la perdita di un oggetto può costituire solo un problema pratico, in quella dell'avere significa un indebolimento del proprio senso di identità: meno ho, meno sono. E poiché gli oggetti, per loro natura, possono essere distrutti, rubati, perduti, chi è nella modalità "avere" è in uno stato di costante vulnerabilità. Per fronteggiare l'angoscia di perdere, si cerca in tutti i modi di controllare i propri possessi (che siano oggetti, persone o processi) attraverso l'applicazione di vincoli, regole, schemi rigidi, definizioni o altre forme di coercizione.

Sulla base di questa chiave di lettura, potremmo ridefinire il modello del distacco (legato alla modalità Avere) e quello dell'attaccamento (legato alla modalità Essere) in modo più preciso, mettendo a fuoco le caratteristiche centrali di ciascuno di questi approcci; propongo di definire il primo modello del Controllo e il secondo modello dell'Empatia.

Rileggiamo ora gli approcci educativi secondo questa chiave, e mettiamoli a confronto: risulta evidente che ci troviamo di fronte a modi diametralmente diversi di vedere la vita.

Modello parentale del ControlloModello parentale dell'Empatia
importanza dello standard di normalitàimportanza dell'approccio individualizzato
rigidità degli schemi di riferimentoflessibilità basata sul contesto
criteri eterocentrici e delega delle competenze materne criteri autocentrici ed autoregolazione
interventi pedagogici di tipo correttivo o coercitivointerventi pedagogici basati sull'empatia
teoria della tendenza all'errore teoria della tendenza attualizzante

Essere genitori controcorrente

I genitori che perseguono l'Attachment Parenting, ovvero il modello dell'Empatia, si trovano isolati e controcorrente, ed hanno difficoltà non solo a seguire la loro linea educativa senza essere criticati, ma anche senza essere fraintesi. Possono essere giudicati a volte iperprotettivi, invischiati; altre volte all'opposto il loro atteggiamento fiducioso, che permette al bambino di fare da solo e sperimentare, può essere scambiato per disinteresse o trascuratezza. Infatti la nostra società, se da un lato lascia i bambini senza contenimento troppo presto, dall'altra li soffoca reprimendo e controllando i loro slanci più autenticamente autonomi.

Come si pone di fatto la società cosiddetta "sviluppata" nei confronti dei bambini? A fronte di un'apparente centralità, che mette l'infanzia al vertice dell'attenzione e dedica ad essa un'enorme mole di energie e risorse, fa riscontro nella sostanza una totale incomprensione e disinteresse, che relega i bambini in una posizione di assoluta marginalità. Le loro competenze, bisogni, percezioni vengono sistematicamente negate, sminuite, travisate, ostacolate. Il modello pedagogico che più spesso viene proposto ai genitori, e del quale si dovrebbero fare interpreti, indica bambino stesso come il nemico da battere. In luogo dell'educazione (da E-DUCO = conduco fuori = aiuto le potenzialità ad esprimersi) si prospetta la bontà dell'istruzione (da IN-STRUO = strutturo, do forma all'interno).

Questo significa che, a differenza delle generazioni precedenti, quando oggi un genitore, non importa se per convinzione interiore o per istinto, sceglie un approccio controcorrente, non ha il sostegno di una collettività che lo legittima e lo conferma nella sua competenza. Deve affrontare invece una dose quotidiana di stress, ricevendo messaggi di sfiducia e di allarme che insinuano dubbi e lo fanno sentire inadeguato e in colpa; deve consumare una quantità incredibile di energie per giustificarsi e spiegare agli altri cosa sta facendo (il che non è immediatamente compreso proprio perché insolito); si trova continuamente costretto a decidere se nascondere le proprie scelte per amor di pace, oppure manifestarle, trovandosi però poi a dover difendere le sue posizioni.

Questo dilemma comincia prima della nascita, per continuare a un ritmo più che quotidiano. Come e dove partorire, come e per quanto tempo allattare, come gestire le notti con un neonato, che fare rispetto a ciò che la società propone / impone riguardo a vaccinazioni, scuola, consumi, religione? E, più semplicemente: come ci poniamo di fronte alla società quando accudiamo i nostri bambini, nelle semplici cose di tutti i giorni, se i nostri parametri per giudicare la sicurezza, la salute, la bontà, la felicità di un bambino sono molto lontani da quelli che usa la maggioranza del nostro prossimo? Uscire allo scoperto ci renderà più forti o più vulnerabili? Chi adotta uno stile genitoriale controcorrente si fa questa domanda centinaia di volte.

La condizione paradossale, che deriva dal dover scegliere se essere in conflitto con i propri istinti o essere conflitto con il proprio contesto sociale, porta a volte a situazioni di difficoltà e disagio, la cui causa viene erroneamente imputata dalla collettività proprio allo stile genitoriale "insolito", invece che al proprio scarso incoraggiamento.

Per fortuna i genitori che decidono ugualmente di seguire il proprio cuore e il proprio buon senso sono in aumento, e soprattutto stanno cominciando ad uscire allo scoperto, e a formare comunità di sostegno reciproco. L'osservazione di queste nuove famiglie e dei loro bambini, alcuni dei quali ormai adolescenti, già pemette di smentire ampiamente tutte le catastrofiche previsioni della "cultura del distacco".

L'utopia concreta dell'Empatia

Meglio di qualunque teoria è efficace osservare da vicino cosa realmente avviene fra una madre e un bambino, quando si applica il modello di accudimento dell'Empatia.

La mamma applica quello che in inglese si definisce "bonding", ovvero letteralmente "sostenere, portare in braccio"; il che significa in pratica usare un marsupio, una fascia o semplicemente le braccia per tenere il bambino a contatto fisico continuo (qualche volta starà anche giù, quando non manifesta il bisogno di essere preso in braccio; ma comunque la mamma è a portata di vista o di udito). L'idea che un bambino abbia bisogno di penombra, silenzio, immobilità non trova riscontro alla pratica: anzi, i bambini che sono "indossati" da adulti in movimento sono nello stesso tempo più tonici e più rilassati dal punto di vista muscolare, e sembra che anche i loro intestini funzionino meglio. D'altronde altre specie animali, i cui piccoli restano nelle tane e quindi non possono essere in altro modo "maneggiati", vengono stimolati tattilmente tramite il leccamento; quindi, dato che noi non lecchiamo i nostri neonati, è abbastanza ragionevole immaginare che questa sollecitazione, biologicamente importante per tutti i cuccioli per stimolare l'apparato respiratorio, muscolare, nervoso e digerente, venga realizzata nella nostra specie in qualche altro modo.

L'allattamento è in genere molto frequente, attaccando il bambino al seno ogni volta che questo mostra di cercarlo; i ritmi dei pasti, di sonno e di veglia sono irregolari, ma questo non è un grosso problema nel momento in cui comunque il bambino può essere portato con sé senza preoccuparsi di essere a casa all'ora della pappa o della nanna. In queste condizioni, la madre ha un apprendimento del significato dei comportamenti del figlio molto più rapido di quanto non avviene lasciandolo nella culla e osservandolo solo in occasione dei pasti (prestabiliti da un orario) e del cambio di pannolino. Ciò le permette di rispondere più efficacemente alle sue richieste, e imparare più rapidamente a valutare lo stato di benessere del figlio semplicemente osservandolo, piuttosto che confrontandolo con lo standard delle tabelle. Il bambino, dal suo lato, non ha bisogno di piangere per attirare l'attenzione della mamma (che è già lì) e ottenere un abbraccio o l'offerta di un seno; quindi elabora una grande varietà di segnali comunicativi molto più modulati, basati su vocalizzi e espressioni e posture del corpo. Per il bambino questo inventare segnali per la mamma e osservarne le reazioni è un esercizio costante a sviluppare abilità sociali, certo molto più stimolante del neonato che apprende solo a piangere al volume massimo, dato che questo è l'unico segnale che viene preso in considerazione. Un bambino che non ottiene una risposta adeguata alle sue necessità, bensì invariabile e indipendente dalle sue richieste, prova livelli elevati di stress, e così anche la mamma, nel momento in cui il bambino piange anche quando è nutrito e cambiato, ma lei non ha il consenso sociale e la chiave di lettura che le permetta di accettare, comprendere e rispondere a questo pianto; e fa violenza al suo istinto per adeguarsi a una regola che le è stata detta indispensabile per crescere il figlio in modo sano. E lo stress abbassa il livello di autostima. Invece con il Bonding sia il bambino che la madre si sentono "al posto giusto", sono nella posizione ideale per apprendere l'uno dall'altro e per sviluppare comportamenti efficaci; la loro autostima così viene nutrita ed accresciuta. Mamma e bambino sono più rilassati: la madre grazie alla prolattina e al fatto che il bambino è più "facile" da accudire; il bambino perché riceve le cure di cui ha bisogno nel momento in cui ne sente la necessità. Ciò risparmia le energie di entrambi per sperimentare e trovare stili personali di interazione che siano basati su se stessi piuttosto che sulle norme sociali di ciò che è "giusto" o "normale".

E le cattive abitudini?

In buona parte esse semplicemente non si presentano; i bambini e le bambine che hanno ricevuto risposta al momento del bisogno rispetto all'allattamento, le coccole, la vicinanza della mamma, quando sono più grandi abbandonano senza difficoltà le vecchie abitudini, proprio perché non hanno sperimentato ansie e privazioni, e diventano tranquillamente autonomi e ansiosi di unirsi al resto della famiglia nelle abitudini adulte (pasti, sonno). Certo, è possibile che i bambini cresciuti in questo modo, più in contatto con i loro istinti profondi e abituati ad aspettarsi rispetto e ascolto dal mondo, siano più insofferenti di altri ai soprusi o all'imposizione di regole innaturali, come essere ignorati o derisi, stare fermi per ore in un banco di scuola od a una scrivania, o partorire supine e passive: un eredità che non può che migliorare il mondo futuro del quale saranno i protagonisti.

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