04.01.2011 Alessandro Di Maio

No taxation without representation

Quando gli Stati Uniti d’America erano ancora un insieme di tredici piccole colonie inglesi situate nella parte nord-orientale del continente americano, l’Inghilterra, dissanguata economicamente dalla ‘Guerra dei sette anni’ impose ai sudditi americani una serie di tasse per rimpinguare le casse statali.

Unite al monopolio di fabbricazione che vietava la produzione in loco nelle colonie di ogni tipo di bene industriale, le tasse richieste avrebbero reso ancora più improbabile uno sviluppo industriale ed economico delle colonie, mentre avrebbero rafforzando il monopolio della madrepatria.

Intrise di cultura illuministica e consapevoli che il consenso dei contribuenti nella determinazione delle imposte era uno dei cardini tradizionali della libertà inglese fin dai tempi della Magna Charta, le tredici colonie rifiutarono il pagamento delle tasse e posero l’alternativa di inviare i propri rappresentanti al Parlamento di Londra o di essere esonerati da ogni tassa non approvata dai loro rappresentanti.

Il principio era uno: ‘No taxation without representation’, nessuna tassa senza rappresentanza. Per calmare le acque facendo valere il proprio diritto a tassare tutti i sudditi, Londra sostituì gli acts con tasse indirette dalla limita portata economica, ma le colonie ne fecero una questione di principio.

Era il 1773 quando il Parlamento di Londra diede alla Compagnia Inglese delle Indie Orientali il diritto di vendere in esclusiva (e mediante propri agenti) il tè proveniente dalla Cina. Ciò escludeva gli intermediari americani che si ribellarono accelerando il motore della Storia verso la nascita e l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.

Oggi il principio ‘No taxation without representation’ non è solo un motto stampato sulle magliette e sulle tazze da latte vendute nei negozi di souvenir di Washington. E’ uno slogan utilizzato quotidianamente da politici, attivisti, organizzazioni e istituzioni pubbliche per denunciare il “lack of representation in Congress” che caratterizza il District of Columbia e chiedere una politica economica basata su meno tasse e Stato.

‘No taxation without represetation’ è stata e continua ad essere una formula variamente distorta. Nel 1995 per criticare il debito miliardario degli Stati Uniti nei confronti dell’ONU l’ex Primo ministro inglese, John Mayor, affermò: “It is not sustainable for states to enjoy representation without taxation”. Nel 2000 il Dipartimento della motorizzazione civile di Washington D.C. decise di aggiungere lo slogan ‘Taxation without representation’ alle targhe automobilistiche.

Furono proprio le targhe che attirarono la mia attenzione la mattina del 17 Aprile. Attraversando le strade che circondano il Campidoglio, vidi un folto gruppo di manifestanti scendere da autovetture e autobus e raggiungere il prato antistante il Campidoglio. In modalità hippy mostrarono pubblicamente il proprio appoggio alla politica del candidato repubblicano indipendente Ron Paul.

Un uomo vestito a stelle e strisce invitava i manifestanti a ripetere slogan, muovere cartelli in aria, cantare l’inno nazionale. Mi avvicinai ad una coppia di manifestanti. Lui, Larry, alto e muscoloso, vestiva un blu jeans, un cappello militare e una t-shirt nera a favore della tesi complottistica sull’attentato dell’11 Settembre. Lei, Monica, lunghi capelli biondi, pelle chiarissima e occhi azzurri. Erano fidanzati da cinque anni e quattro mesi si sarebbero sposeranno in Virginia, il loro Stato.

Insieme spiegarono chi fosse Ron Paul. “E’ la persona più onesta d’America ma lo boicottano tutti perché se vincesse il rapporto tra americani e America e tra l’America e il mondo cambierebbe radicalmente”, affermò Larry.

“Meno tasse e meno Stato – aggiunse Monica mostrandomi il cartellone blu con la scritta ‘Ron Paul for President 2008’ – è questo uno dei punti portanti del suo programma politico”.

“La mia famiglia produce tabacco da generazioni e credi a me se ti dico che non è bello vedersi sottratto dallo Stato il 30% del proprio guadagno sottoforma di tasse”, continuò Monica. “E poi se diventasse presidente – continuò il fidanzato - riporterebbe a casa tutte le truppe impegnate all’estero per impegnarle qui a casa nostra, per difenderci dall’immigrazione clandestina, da eventuali attacchi militari o dalle catastrofi naturali”.

“Se i nostri soldati fossero stati a casa al momento dell’Uragano Katrina e se non si spendessero così tanti soldi in missioni militari all’estero tutto quello non sarebbe successo”, affermò sbattendo il pugno destro con il palmo della mano sinistra.

“Ron Paul propone meno tasse e Stato. Ma se annulliamo completamente lo Stato chi è che potrebbe costruire le infrastrutture necessarie al bene pubblico?”, domandai facendo l’esempio delle dighe che avrebbero dovuto proteggere la città di New Orleans dallo straripamento del fiume Mississippi. Monica risponse decisa: “Tu e il mondo sottovalutate la forza dei singoli cittadini a cui non è stato sottratto il frutto delle proprie fatiche”.

Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008

Il testo contenuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 5 Gennaio 2010