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La devozione a Sant’Agata presso Radicofani

 

Il calendario liturgico celebra la festa di Sant’Agata il 5 febbraio, data del suo martirio, ed è celebrata solennemente in tutta la chiesa cattolica.

Agata nasce e trascorre la sua rapida vita durante la metà del III secolo d.C. al tempo dell’imperatore Decio[1]. Dagli atti del martirio della Santa sappiamo che subì un’atroce tortura: le fu asportato il seno. Il supplizio, ordinato dal proconsole Quiziano, fu compiuto da due spietati persecutori –Silvano e Falconio- che perirono durante il terremoto di Catania. La prima scossa tellurica avvenne proprio durante l’inizio delle sevizie alla povera Agata, per questo in molti luoghi gli abitanti delle terre martoriate dai sismi si votano e chiedono l’intercessione della Martire. Sant’Agata è martire e patrona dei terremoti.

Detto ciò appare ancor più plausibile la diffusione della Santa in terre “continentali” anche a distanza di centinaia di chilometri, se non migliaia, è quella che potremmo dire la forza della fede.

Anche in terra senese, a Radicofani, laddove la Santa senese per antonomasia –Caterina- iniziò a scrivere, lei analfabeta, di questioni spirituali e teologiche, si è diffusa una venerazione che addirittura è amministrata da una Confraternita omonima che gestisce la storia –sul solco della tradizione- il culto riservato alla santa catanese. Gli abitanti di Radicofani l’hanno addirittura eletta a Santa Patrona in quanto più volte hanno fatto richieste d’ausilio e chiesto grazie, molte delle quali accordate. Di qui un diffuso e profondo amore che portò ad una e vera propria venerazione per la martire in quelle terre ad alto rischio sismico. Un profondo ed indiscusso attaccamento alla Santa si radicò anche in Radicofani, un borgo dalle insolite forme che si erge sovra un’aspra rupe basaltica al di sotto di un massiccio vulcanico che misura 814 metri sul livello del mare.

Radicofani durante il Medioevo è un importante centro in quanto sorge quasi all’incrocio di due importanti valli, quella del Fiume Orcia, affluente dell’Ombrone -che sfocia nel Mar Tirreno in prossimità di Grosseto- e del Fiume Paglia -affluente del Tevere- che passa per la città Orvieto più a settentrione. Inoltre correva in quei secoli a cavallo del Mille –e si diffuse successivamente con la nascita del “Giubileo”- una vera forma di spiritualità accesa e cioè il “pellegrinaggio” –un vero percorso di ricerca interiore-, una tipologia dello spirito medioevale, sopravvissuto sino ai giorni nostri[2], che portò molti fedeli ad intraprendere grandi viaggi verso la Città Eterna: la Via Francigena, chiamata anche “via Romea”, in realtà nacque dai longobardi che dovettero unificare con un’unica superstrada il settentrione con il meridione[3].

La cittadina divenne famosa per Ghino di Tacco, nobile senese[4], condannato a morte per aver ucciso Messer Benincasa[5] –uditore papale presso il Tribunale di Roma- sgozzandolo e portandone la testa in trionfo. «Quiv’era l’Aretin che da le braccia/ fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte»[6].

Torniamo alla Santa Patrona di Radicofani che continua ad essere venerata dai suoi abitanti. Purtroppo non potendo trovare rimedio nell’ambito naturale gli antichi facevano ricorso al “soprannaturale” ed invocavano l’aiuto –per tramite del Patrono- divino. Suppliche e litanie per scongiurare la peste (ecco ricorrere a San Rocco), preghiere e processioni alla martire per frenare il terremoto (Sant’Agata). Questo comportamento di autodifesa ha portato la popolazione di Radicofani ad affrontare un lungo periglioso viaggio per giungere alla città di Catania al fine di riportare una reliquia della venerata martire patrona dei terremoti e scongiurata per avversare il sisma e porsi sotto la sua protezione. Il Settecento è un secolo funesto per il borgo di Radicofani e per i suoi dintorni che nel 1727, nel 1740, nel 1764 ed infine nel 1776[7]. Il peggior terremoto si scatena mietendo numerosissime vittime nel 1727 e ciò spinge gli abitanti a far ricorso alla Santa catanese e ad invocarne l’aiuto; nella storia della cittadina fu forse il più atroce per intensità e danni, incalcolabili, che costrinsero gli abitanti ad una vera ricostruzione del borgo e delle sue abitazioni e chiese. nello stesso tempo una dolosa distruzione della Fortezza, che governa dall’alto della rupe la valle, e segna indelebilmente l’area settentrionale della Val d’Orcia si aggiunse alla furia tellurica.

Fu così che nell’Anno Domini 1727 una delegazione cittadina guidata da un chierico si mosse alla volta di Catania subito dopo la solenne celebrazione della Festività dell’Assunta. In pellegrinaggio, a piedi, viaggiarono alla volta della città sicula ove il Vescovo diocesano li accolse e grazie ad una lettera credenziale del Metropolita di Chiusi, diocesi da cui dipende Radicofani, ottennero un frammento osseo che subito venne inserito in una teca d’argento. La delegazione non compì l’opera in quanto al fine di poter venerare delle Sante Reliquie abbisognavano di un nulla osta rilasciato dalla Curia Pontificia. Perciò durante il ritorno fecero tappa in Vaticano per l’autenticazione della reliquia di Sant’Agata. L’Autorità Pontificia competente autorizzava la pubblica esposizione e la venerazione con un atto notarile il 31 ottobre 1727[8]. Esausti ma soddisfatti del traguardo raggiunto, con un’enorme speranza e tanta –ma proprio tanta- fede, i pellegrini giunsero alla loro città natale verso i primi di novembre dello stesso anno. L’accoglienza di tutti gli abitanti fu davvero entusiasta presso la Porta da Piedi.

Dall’ingresso delle Sante Reliquie della Martire Agata in quel di Radicofani si convenne che una Confraternita laicale fosse custode di perpetuare il culto alla vergine martire. La Fraternità ebbe la struttura cosiddetta in Centuria e si convenne che i confratelli indossassero una cappa rossa in ossequio alla Martire[9].

Ciascun anno gli associati alla “Confraternita di Sant’Agata” sfilano –durante la festa annuale del 5 febbraio- per le vie del paese cantando: «Nostri padri da Catania ti portarono in processione, genuflessi, reverenti e con somma devozione»[10].

L’attuale reliquiario in argento è stato forgiato successivamente al ritorno dei fedeli pellegrini che vollero custodire la devozione della Santa martire Agata.

 

La chiesa che custodisce le Sacre Reliquie è dedicata a Sant’Agata sorge sulla via principale –un tempo tappa della Via Francigena- di Radicofani e presenta l’aspetto barocco. Dell’antica facciata restano ben visibili i due ingressi –contornati da roccia basaltina- dalla forma svettante a sesto acuto, in corrispondenza dei quali –superiormente- due finestre a tutto sesto, di epoca gotica emergono sul nuovo fronte che in una lapide ricorda la ristrutturazione dopo il tragico sisma dell’anno 1727. Non è un caso che questa chiesetta, tragicamente mutilata dal terremoto, fu il luogo prescelto per accogliere le Sante Reliquie di Sant’Agata e già vantava un’urna contenente frammenti ossei di San Saturnino, co-patrono di Radicofani. Questo tempio in cui campeggia l’immagine della Vergine è stata scelta per custodire due Santi Martiri, forse proprio a preservare il cuore del centro storico dell’abitato dal pericolo del terremoto. L’interno si presenta ad unica navata, entrando subito a destra un Crocifisso ligneo di grande interesse artistico del XIII secolo appartenuto al Convento dei Padri Conventuali. La fattura lo rende un unicum nella zona, molto probabilmente è stato scolpito da un artista nordico, di scuola fiamminga. Sulla sinistra in una nicchia un gruppo di statue policrome presentano la Madonna che domina la cittadina di Radicofani attorniata dai due patroni: Agata e Saturnino.

L’altare maggiore è costituito da una tavola di Andrea della Robbia[11] in cui compaiono la Vergine con il bambino (benedicente) ed ai lati quatto santi: San Francesco (segni distintivi: le stimmate, il saio, la Croce ed un Libro) e Santa Elisabetta d’Ungheria (dei fiori), Santa Cristina di Bolsena (una freccia conficcata nel collo[12]) e San Lorenzo (), gli ultimi due recanti nella destra la palma[13] oltre a e due angeli recanti il diadema che stanno per porre sulla “benedetta fra tutte le donne”. Ai piedi della Madonna Incoronata leggiamo un cartiglio indicante l’inno mariano: «Sub tuum presidium confugimus Santa Dei genitrix»[14] e forse resta la certezza del prosieguo che recita “non disprezzare noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo o Vergine gloriosa e benedetta”. Certamente la protezione della Vergine Madre di Dio deve esser stata più volte invocata dagli abitanti di Radicofani. Nella predella, invece troviamo San Sebastiano Martire (il cui segno distintivo sono: la classica positura con le mani dietro la schiena –presumibilmente legate- e le frecce), l’Arcangelo (con un giglio in mano), al centro un vaso di gigli, speculare  (e primo personaggio sulla destra è la Madonna) la Vergine Maria e San Rocco (il bastone, il cappello a tesa larga e la conchiglia del pellegrino)[15]. Ai lati notiamo la bella decorazione laterale con tralci, addobbi fitomorfici, frutti e fiori, mentre l’architrave superiore presenta una schiera di sei cherubini. L’opera, una terracotta invetriata, è databile intorno all’anno 1500. fu eseguita da Andrea  durante il periodo soggiornò in questa zona unitamente ai membri della sua bottega. Andrea Della Robbia colpisce per l’esecuzione delle sue terrecotte che sanno di una brillantezza ed una tenerezza impagabile, potremmo dire che il discepolo –nipote- superò il maestro. Ciò che incanta della dossale di Sant’Agata è il tono con cui Andrea riesce a rendere lo sguardo dei Santi, la Madonna e gli angioletti.

Al di sotto dell’opera del Andrea Della Robbia un’urna contenente le ossa di San Saturnino Martire[16], donata dall’illustre Mons. Giovanni Pellei[17] –nativo di Radicofani- nell’anno 1647 nell’originale urna.

Prof. ALESSIO VARISCO

Storico dell’arte e saggista

Direttore "Antropologia Arte Sacra"


 

[1] Decio fu imperatore dal 249 al 251 d.C.

[2] Purtroppo la forma “devozionale” del pellegrinaggio –se ne contano anche su “commissione”- fu ampiamente contestato dalla Riforma Protestante, tanto che durante il Concilio di Trento si dovette sottolineare l’importanza per ogni cristiano di andare in pellegrinaggio verso santuari, chiese custodenti reliquie di Santi o Martiri, Santiago –ove sono le spoglie mortali di San Giacomo-, Roma –città Eterna custodente le tombe dei Santi Pietro e Paolo-, e verso i Loca Sancta (Gerusalemme è la Città Santa per antonomasia ove i pellegrini cristiani possono contemplare la Basilica del Santo Sepolcro, o dell’Anastasis –dal greco “Risurrezione”- ove morì crocifisso, fu sepolto e risuscitò Gesù Cristo). La forma del pellegrinaggio una sorta di purga (per il “burro” -in spagnolo “asino”- che è il nostro corpo) fortifica lo spirito, è una vera e propria palestra. A quei tempi non c’erano eurostar, né aerei e neppure vetture, si percorreva tutto a piedi percorrendo delle tappe obbligate in centri spirituale di intensa evocazione cristiana per approdare –purificati- alla meta finale (Santiago, Roma oppure Gerusalemme) preludio terrestre di quella celeste.

[3] L’asse nord-sud doveva unire le due capitali: Pavia e Benevento. Su quest’arteria viaria che in alcuni tratti andava a coincidere con l’antica arteria viaria romana della Cassia assunse il titolo di “Francigena” dai Franchi che la incrementarono e ne imposero la titolazione, seppure l’invenzione sia di origine longobarda.

[4] Ghino di Tacco divenne un brigante quando alcuni dei suoi famigliari ghibellini e perciò ostili alla politica senese –invece guelfa- caddero nel 1285 vittime di un’imboscata e furono mandati a morte. Ghino riuscì a scappare al boia, il padre fu decollato. Per il giovane iniziò una ostinata vendetta che lo rese il Robin Hood italiano. Anche Boccaccio lo canta -nella decima giornata nel suo Decameron- e molti suoi contemporanei lo inneggiano a cavaliere-ladro demolitore dell’ipocrisia e dei soprusi. Questa fama invisa dai potenti lo portò alla morte che accadde poco dopo la sua “furia romana” presso Sinalunga, in terra senese, ove durante un’imboscata fece una fine violenta. La vallata –ed il Monte Amiata sullo sfondo- lo vede ora il custode dei giardini pubblici con lo scudo e la spada immortalato dallo scultore locale Aldo Fantini.

[5] L’erudito giudice Messer Benincasa da Latrina di Arezzo.

[6] Dante, Purgatorio, VI,13-14.

[7] Le date di questi terremoti sono riportate minuziosamente dal senese Giovanni Battista Pecci nelle sue Cronache, ora conservate all’Archivio di Stato di Siena.

[8] Questo documento è integralmente e splendidamente conservato presso l’archivio della Confraternita.

[9] A livello liturgico il rosso è il colore dei Martiri che la Chiesa Cattolica venera ed addita a tutti i christifideles come autentici modelli di perfezione e nostri fraterni custodi della fede.

[10] Inno ottocentesco della Confraternita di Sant’Agata

[11] Andrea Della Robbia –nato nel 1435 e morto nel 1525- è nipote di Luca, fondatore della bottega dei Della Robbia, viene adottato dallo zio ed insieme ai suoi fratelli continua l’opera.

[12] L’esatta identità non ci è nota: potrebbe essere Sant’Orsola, un’altra santa martirizzata con una freccia in gola.

[13] Urge sottolineare che la Vergine della dossale è l’illustrazione della Madonna incoronata, un tipo celebrato nel Quattrocento.  

[14] Dal latino: “Sotto la Tua protezione ci rifugiamo Santa Madre di Dio”.

[15] Il Santo, nativo di Montpellier, è invocato contro la peste e compì i primi miracoli –guarendo dalla peste- a poca distanza, in Acquapendente presso l’Ospedale cittadino sulla Via Francigena.

[16] San Saturnino è un martire vissuto nel IV secolo d.C. ed è il co-patrono di Radicofani.

[17] Giovanni Pellei fu padre guardiano del Convento di Santa Croce in Firenze.

 

 

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