Capitolo 2

2. Lo Stiagh

Nonostante avesse scelto il suo libro, un mostruoso volume pesante quanto un cesto di pietre, non gli fu ordinato di riportare indietro gli altri, così ogni giorno prese a consultare l’uno o l’altro indistintamente, iniziando anche ad annotare una serie di appunti.

Non era accaduto nulla di rilevante per quasi una settimana. Lo stregone aveva dovuto partecipare ad un paio di cene mondane, dove Shyar lo aveva accompagnato e durante le quali, come di consueto, gli aveva servito personalmente le vivande portate dai cuochi. Per il resto, il suo padrone non si esibì davanti a lui in altri incantesimi e stregonerie.

Il giovane continuava a comportarsi nel miglior modo possibile, a frenare la lingua e ad abbigliarsi con maggior riguardo di prima, poiché aveva notato che tutti questi accorgimenti compiacevano lo stregone e gli avevano evitato altre punizioni.

Quella sera quando salì a servire la cena, lo trovò di buonumore.

“Voglio che tu vada alla Lucertola Dorata. Non ci sei mai stato, è vicino al Nido. Portami una rossa focosa, la voglio bella e seducente come una sirena degli abissi”.

Così fece. Andò alla Lucertola Dorata, evitò le esclamazioni e le profferte voluttuose e parlò con la padrona della casa. Lei sembrava conoscere lo stregone molto bene, consigliò una giovane dallo sguardo sferzante, una ninfa dal sorriso tagliente e sfrontato, dalle labbra generose. Era perfetta, anche se a lui non piacque. Quando furono in carrozza la ragazza gli pose una mano sulla coscia e gliela fece scivolare fino all’inguine afferrandogli il membro attraverso il velluto.

“Muscoli sodi e arnese coi fiocchi; sei dotato, mio giovane signore”.

“Non sono un signore”, le rispose gelido.

Lei si ritrasse, ma continuò a scrutarlo con aria canzonatoria.

“Quanta freddezza… Sei solo timido o ti infastidisce la mia professione?”.

“Nessuno dei due”.

“Dunque devo supporre che sono io a non piacerti?”. Rise, “Allora, dimmi: com’è questo Stregone di Veleni? È così bello come tutti dicono?”.

Molto, molto di più… Pensò senza dirlo.

“È il mio padrone. Io lo servo e non lo giudico. Lo vedrai con i tuoi occhi”.

Lei fece spallucce e si mise a guardare fuori dalla tenda.

Quando raggiunsero il Palazzo e ne varcarono i portoni la ragazza sembrò più incuriosita e impressionata che veramente spaventata. Lo seguì ammirando l’androne dalle statue grottesche e proruppe in mormorii estasiati quando ammirò l’effetto di luce e oscurità che creavano i bracieri. Shyar la introdusse con fare scostante negli appartamenti di Xewon e poi si ritirò per preparare le bevande.

Quando tornò con il vassoio fece bene attenzione a procedere senza un suono. Depositò le caraffe d’acqua, idromele e vino aromatizzato; si allontanò in tutta fretta, senza gettare neppure un’occhiata al grande letto, anche se gli ansiti ed i lamenti erano molto più vigorosi e acuti del solito. O forse, fu proprio per questo che scappò via.

***

Si era addormentato sul suo giaciglio con i vestiti addosso, in attesa del suono del campanello per riportare la prostituta al bordello. Ma non vi fu alcun richiamo tintinnante.

Shyar si destò con la luce del sole che entrava dalla finestrella in cima alla parete: la sua stanza si trovava mezzo livello sotto il suolo, accanto alla dispensa. Un luogo piccolo dalle pareti intonacate, con un letto piuttosto comodo in legno, privo però di qualsiasi valore. C’era un camino nell’angolo opposto, lui lo accendeva di tanto in tanto per fugare l’eccessiva umidità. Come guardaroba usava una cassapanca e per comò due sedie di vimini.

Il campanello suonò a metà mattina.

“Colazione per due, Seppia. E anche il pranzo e la cena. Pollo, capretto e un dolce di forno”. Il suo padrone sorseggiava l’idromele in piedi accanto alla finestra, mentre la ragazza riposava con un gran sorriso beato fra le lenzuola nere.

“Quando avrai servito la colazione recati alla Lucertola Dorata e paga abbastanza perché Erish possa rimanere qui qualche tempo”.

“Quanto tempo?”, chiese atono.

“Un paio di giorni”.

S’inchinò rigidamente e uscì.

***

Cucinò ciò che aveva in dispensa per il pranzo, ma dovette recarsi ai mercati per preparare la carne in previsione della sera. Si dilungò più del necessario, aggirandosi svogliatamente per le bancarelle e le vie dall’odore acre dei macellai, posticipando il più possibile il momento del ritorno. Ma infine rientrò, e cucinò ciò che gli era stato chiesto.

Servì la cena direttamente nella stanza da letto. Il suo padrone era intento a lavorare presso lo scrittoio, nell’altra stanza, ma Erish si avventò sull’agnello.

“Cucini tutto tu da solo? Sei bravissimo. Dove hai imparato?”.

“Alla Casa di Miseria”, rispose brevemente prima di portare il secondo vassoio di là.

Non sollevò neppure gli occhi, “Posalo laggiù. Mangerò più tardi”.

“Mio signore, si fredderà”.

“Vattene Seppia”.

Con un inchino obbedì, avrebbe portato via i vassoi più tardi. Uscì con aria severa, ma non appena fu in corridoio aumentò il passo, imprecò e si rifugiò fra le sue rune.

***

Non riusciva a dormire. Era tornato dal piano superiore da quasi tre ore ormai, ma non riusciva ancora a dormire.

Il suo padrone gli aveva ordinato sidro per sé e vino per la ragazza. Quando lui glieli aveva portati, era stato costretto ad entrare nella camera con i manifesti gemiti di piacere che si udivano fin da fuori. Non aveva avuto intenzione di guardare, ma lo aveva fatto. La prostituta era sdraiata fra le gambe dello stregone, la testa affondata tra le cosce dell’uomo, il membro in bocca. I suoi ansiti e lamenti erano così forti che sembrava godere di quel che gli stava facendo. Xewon era appoggiato tranquillamente ai cucini della testata, una gamba ripiegata, accarezzava i capelli fulvi della giovane mentre osservava placido ciò che lei faceva.

Non sarebbe stata una scena troppo sconcertante per lui che, cresciuto dov’era cresciuto quasi in mezzo ad una strada, aveva visto clienti e puttane, nonché sguattere e servitori della Casa di Miseria amoreggiare praticamente ovunque. Non sarebbe stata scioccante se lo stregone in quel momento non avesse sollevato la testa, fissando direttamente lui.

Occhi gelidi, privi di qualunque espressione. Occhi spietati.

Ne era rimasto folgorato, incapace di muoversi. Capì che quello sguardo era per lui soltanto: lo aveva già avvertito una volta di non sbirciare.

Era uscito velocemente, il cuore in gola e nonostante si fosse ritirato nelle proprie stanze ingiungendosi di dormire, non riusciva a farlo. Il pensiero martellante di ciò che aveva visto turbava la sua mente che nel buio riportava in vita l’immagine di quegli occhi grigi, di quel corpo nudo bello come quello di una divinità. Cosa avrebbe dato per una sola carezza, cosa avrebbe fatto per un unico bacio…

Shyar si sorprese ad avere la mano sulle labbra, imitazione di quel bacio che non sarebbe mai giunto. Indugiò, poi si fece scorrere il tocco lungo il collo ed il petto, seminudo fra i lacci della tunica di lana leggera che indossava la notte. Scese ancora, in mezzo alle gambe, strofinandosi il membro da sopra le brache larghe. Emise un gemito. Immaginò che quella mano fosse del suo signore. Che sciocco, Lui non si sarebbe mai abbassato a giacere con un inutile servo, né tantomeno si sarebbe adoperato per dargli piacere. Al massimo, se fosse stato una donna, avrebbe potuto usarlo una o due volte.

Pensieri di quel genere gli fecero male, ma non quietarono la sua erezione. Shyar intrufolò la mano tra le falde della stoffa e si circondò da solo, stringendo.

Perché quell’uomo era così crudele? E perché doveva essere così tremendamente bello, così sensuale da fargli perdere la testa? Il suo corpo scuro era grande e forte, le sue membra lunghe avrebbero potuto avvilupparlo mentre si stringeva a lui…

Shyar ansò, iniziando a masturbasi. Con l’altra mano pizzicò i capezzoli, contorcendosi nel letto e arruffando coperte e lenzuola.

Avrebbe pagato qualunque prezzo perché il suo signore si accorgesse della sua presenza. Ma Lui non l’avrebbe mai trattato diversamente da un lacchè di basso rango. Per quell’uomo le esistenze degli altri non avevano alcuna rilevanza. All’infuori della stregoneria e della magia non vedeva nient’altro, non possedeva nulla che potesse ritenere prezioso.

Shyar sapeva che lo stregone non avrebbe esitato a lasciarlo morire con la stessa noncuranza con cui avrebbe guardato agonizzare un animale per la strada. Nonostante questo, quando con un sottile grido venne, era alla sua bocca che pensava, le sue mani che cercava, il suo corpo che voleva. Sporcò le lenzuola scoprendosi sudato e ansimante, con le spalle completamente nude e la testa ciondolante dal letto.

Si coprì il viso con il braccio dalla mano sporca.

“…Sei solo uno stupido, Shyar”, mormorò.

***

Riaccompagnò Erish quel pomeriggio. In carrozza la ragazza canticchiava a labbra chiuse e ammirava un grande bracciale d’oro che prima non possedeva.

“Il tuo signore è davvero generoso”, osservò, “E anche molto, molto dotato!”. Rise irriverente, per nulla turbata dal fatto che lui non la degnasse di uno sguardo.

Finita quell’incombenza Shyar procedette a raccogliere missive dai vari fornitori di articoli magici, comprò pane e un dolce di farina scura e tornò al Palazzo. Sapeva che lo stregone lo stava aspettando, così non tentennò ed andò ad affrontarlo subito.

“Che cosa ti avevo detto, Seppia?”.

Lo aveva trovato in terrazza. Nonostante cercasse di farsi coraggio, il luogo che il suo padrone aveva scelto per incontrarlo lo riempiva di timore.

“Mi avevate ordinato di non guardare”.

“Ma tu lo hai fatto, vero?”.

A nulla sarebbe servito obiettare che era stato solo per un fuggevole istante, si sarebbe solo adirato di più.

“L’ho fatto”, ammise quindi.

“Dunque sai che hai trasgredito di nuovo. Sei pronto a ricevere la tua punizione?”.

Aveva la gola asciutta, “Mentirei se dicessi di sì”.

L’uomo lo guardò.

“Sempre sincero fino all’insolenza”. Raccolse il mantello dal divano, “Oppure sei più furbo di quanto vorresti far intendere”.

“Io non…”.

“Seguimi”.

Quando dal secondo raggiunsero il primo piano e poi presero per i sotterranei, Shyar impallidì. Stava per essere usato per un altro incantesimo. Avrebbe preferito essere percosso a sangue piuttosto che affrontare di nuovo una stregoneria.

Questa volta quando furono nella stanza dei libri ammassati presero una porta differente, ritrovandosi in un corridoio strettissimo e fetido, dove il fiato si condensava e rivoli d’acqua ristagnavano in pozze scure.

Non riuscì a trattenersi.

“Deve stiamo andando?”.

“Fa silenzio”.

Il passaggio terminò contro una grata. Questa non si aprì alla sola presenza dello stregone, egli dovette allungare una mano verso il lucchetto e mormorare alcune parole perché questo, con uno sbuffo di fumo violetto, schiantasse.

La porta cigolò con un miagolio dando accesso in un’unica spoglia stanza circolare dal soffitto a volta. Al centro, sul pavimento, vi era un foro largo due braccia dal quale sembrava provenire il fetore che impregnava il sotterraneo.

“Scendi”, ordinò.

Shyar lo fissò sgranando gli occhi.

“Che cosa? Là sotto?”.

L’uomo se ne stava immobile con la torcia in mano, ricambiando il suo sguardo con espressione granitica.

“Non andrò. L’altra volta ho fatto come volevate voi, ma questo…”, scosse il capo studiando l’apertura buia che scompariva chissà dove. Gli parve addirittura di percepire del movimento, o forse un sospiro raschiante.

“Scendi”.

L’ordine fu ripetuto con lo stesso tono asciutto di prima. Shyar cercò un barlume di sensibilità in quel volto senza trovarne traccia.

“No”, s’impuntò.

“Ubbidisci o ti ci getterò con la forza, Seppia”.

“Che cosa c’è laggiù?”.

“Non ti deve interessare”.

“Volete spedirmi in quel buco e non volete dirmi che cosa nasconde?”, strepitò, lo sguardo acceso.

“Non ti accadrà nulla, se farai come ti dico”.

Ristette.

“Allora non è una punizione, è un altro dei vostri esprimenti. Io pensavo…”.

“Che ti avrei rinchiuso in un buco fino a domattina? Non sono tua madre, non ti darò una bacchettata sulle dita per aver fatto il ragazzo cattivo”.

“Io non ho una madre”.

“È il mio terzo e ultimo ordine: scendi in quell’apertura ed esegui le mie direttive”.

Serrando i pugni lungo i fianchi Shyar si appressò al foro. Un’aria tremendamente gelida gli accapponò la pelle. Guardò un’ultima volta il suo padrone, poi si sedette sul bordo facendo oscillare le gambe giù.

“Non è molto profondo. Lasciati cadere”.

Con il cuore in gola, spiccò il balzo. Gli parve che la caduta si protraesse per un istante eterno, poi colpì il fondo crollando in ginocchio e sbattendo il fondoschiena. Aveva colpito il pavimento con l’osso sacro ed un dolore intenso gli fece arrivare le lacrime agli occhi.

Massaggiandosi ritornò in piedi e si guardò intorno senza vedere altro che buio, il fetore era tremendo. Il suo fiato cristallizzava in ansiti veloci.

“Non vedo niente”, disse rivolto all’apertura sopra di sé. Scoprì che era molto in alto: come avrebbe fatto a raggiungerla per uscire?

“Addentrati nel buio ed aspetta che i tuoi occhi si abituino, poi descrivimi ciò che ti circonda”.

Rimase fermo sotto il breve cono di chiarore per minuti interi. Poi, tremando, fece un passo. Ancora non vedeva nulla, sentiva solo come una presenza lontana, da qualche parte. Si fece ancora avanti, i peli ritti lungo le braccia e dietro la nuca.

Urtò qualcosa di duro e la suola gli s’impigliò. Trasalì violentemente retrocedendo ed andando a sbattere di nuovo.

“Ci sono due cadaveri qua sotto!”, urlò più spaventato di quanto volesse apparire.

“Ignorali. Guarda le pareti”.

“Ignorarli?!”, maledizione, indossavano la sua divisa! Ecco dove erano finiti i due servitori scomparsi.

“Perché mi avete fatto scendere qui?!”.

“Cerca di calmarti e fissa le pareti. Devi dirmi se vedi un disegno di qualche tipo”.

Cercando di allontanarsi il più possibile dai morti rinsecchiti, la cui pelle si era tesa nei visi scavati e le cui mascelle schernivano spalancate il buio, Shyar adocchiò il muro. Che altro poteva fare? Si trovava in una stanza circolare come quella soprastante, capì.

“Lo vedo. Vedo il disegno. È una sorta di semicerchio a mezzaluna, triplo. Brilla leggermente”.

“Toccalo con la punta dell’indice sinistro e compi il suo giro completo. Si aprirà una porta, tu rimani fermo dove sei”.

Si sfregò le mani gelide osservando lo strano scintillare argenteo.

“Finché non lo farai io non potrò iniziare a pronunciare il mio incantesimo e tu non uscirai di lì, Seppia”, lo spronò la voce dall’alto.

Shyar borbottò una maledizione e si accinse a fare come gli era stato detto. La pietra era fredda e umida al tocco, mentre il disegno sembrava caldo. Quando ebbe terminato di seguirne i contorni uno stridore di roccia contro la roccia indicò lo scivolare di una porta alle sue spalle, dove si aprì un enorme foro.

Un odore nauseabondo, come di una bestia selvatica, lo investì facendogli salire conati di vomito.

“Bene. Adesso rimani completamente immobile finché io non avrò finito con l’incantesimo. Mi raccomando: non un solo cenno. Se ti muoverai, lui ti ucciderà”.

“Chi? Chi mi ucciderà?”.

“La creatura che sta arrivando”.

Fissò annichilito il passaggio nel muro. Ecco come erano morti i due dilaniati al centro della stanza: avevano cercato di risalire mentre quella cosa arrivava.

Maledicendo silenziosamente se stesso e lo stregone, Shyar si addossò al muro sudando freddo. Nella stanza soprastante poteva udire il cantilenare del timbro baritonale di Xewon ed intravide bagliori azzurri e viola.

Un rumore strascicato attirò la sua attenzione, un raspare continuo. Pregò che l’uomo facesse in fretta, molto in fretta. Ma il suono degli artigli contro la pietra e quello del respiro pesante furono sempre più vicini, il puzzo aumentava. Il fracasso fu ad appena pochi metri di distanza, poi ad una sola svolta della parete. Infine, la creatura apparve.

Era qualcosa che non poteva esistere nel mondo dei vivi. Busto umano, ricoperto di pelo ispido, con braccia lunghe due volte quelle di un uomo e artigli retrattili su ciascuna delle dodici falangi. La testa era gigantesca, come quella di una belva dalla dentatura spaventosa, fauci spioventi che nella bocca non riuscivano a stare. Gli occhi erano strabuzzanti e neri, più simili a quelli di un insetto ed il naso un unico foro che sfiatava miasma. Ciò che esulava ogni comprensione comunque, era la parte inferiore del corpo: metri e metri di squame avvoltolate su loro stesse, un unico flessuoso serpente munito di uncini fra le scaglie dure come acciaio.

Shyar sentì il cuore schizzargli fuori dalla gola. Le sue gambe erano paralizzate, il suo collo così teso da sembrare divenuto parte della schiena e del muro. Non si mosse, eppure il mostro parve avvertire la sua presenza perché si voltò di scatto e ruggì.

Shyar scivolò lungo la parate fino al suolo coprendosi le orecchie con le mani mentre quel richiamo acutissimo faceva tremare la roccia.

Era perduto. Un’ombra gigantesca fu su di lui. Fece per schizzare via, quando la creatura lo afferrò per la vita con una sola immensa mano.

Gridò mentre gli artigli gli mordevano la carne e lo serravano stretti, si aggrappò alla pelliccia cercando di liberarsi. Sentì il fiato fetido sul viso, poi lungo il collo ed il petto: lo stava annusando.

“PADRONE!”, chiamò urlando, “Vi prego, vi prego sbrigatevi!”.

L’essere non lo uccideva, per quale motivo? Percepì altri graffi involontari, lungo la schiena ed un braccio, poi la presa attorno al suo torace si fece più soffocante e lui gettò il capo indietro urlando di dolore. Il mostro cominciò a strisciare via, tornado da dove era venuto.

“XEWON!!”.

Lo teneva stretto mentre si spingeva nelle profondità della sua tana. Shyar ruggì ed imprecò, cercando con le mani nude di aprire quegli artigli lunghissimi e sporchi. I cunicoli erano decine e decine e sembravano non finire mai.

Raggiunsero una caverna dalle dimensioni monumentali, puntellata di stalagmiti che spuntavano dal suolo e da stalattiti ondulate simili a canne d’organo appese al soffitto. Fu gettato su un mucchio di terra marcia, dove rotolò e tossì per il duro atterraggio. Si rese conto che la piccola montagna era un unico ammasso di cadaveri di animali, grandi e piccoli, le ossa sbiancate ormai da molto tempo, probabilmente erano stati i pasti dell’essere quando questi era ancora libero di uscire e di andare a caccia. Di cosa poteva nutrirsi ormai? Lo aveva portato lì per sbranarlo?

Incespicò grattando con i talloni per cercare di farsi indietro, ma non c’era luogo in cui fuggire. Il mostro gli girava attorno gorgogliante, fissandolo con quegli occhi semiciechi come se pensasse a cosa farne di lui. Decise abbastanza in fretta, perché gli si gettò addosso.

Shyar protesse il viso con un gesto inutile. Fu afferrato e sollevato in alto, metri e metri sopra il suolo, il mostro si era avvoltolato su se stesso raggiungendo un’altezza incredibile.

L’essere gli spinse le braccia dietro la schiena tanto forte che presto gliele avrebbe spezzate. S’inarcò gridando, il petto completamente vulnerabile. Allora capì: la creatura gli avrebbe sfondato la cassa toracica per divorargli il cuore. Poteva quasi percepire il suo sottile fremito di desiderio e la bava gocciolante lungo la gola mentre auscultava il suo battito veloce e spaventato.

“È questo che vuoi, lurido bastardo? Allora fallo! Che aspetti?!”, urlò a metà fra un ruggito di sfida e un singhiozzo.

L’essere spalancò le fauci, lui serrò gli occhi.

Un brivido di luce viola rombò per la sala scuotendo le formazioni calcaree che presero a risuonare e crollare, sbriciolandosi dappertutto.

Il mostro mollò la presa, colpito dal dardo direttamente in mezzo alla schiena. Shyar scivolò lungo il suo corpo fino a ruzzolare per terra. Le spire del serpente frustavano l’aria sbattendo con violenza il suolo mentre agonizzava. Ci fu un’altra esplosione ed i suoi movimenti si quietarono, le urla divennero lamenti sconnessi.

Xewon Ventridys s’inerpicò su quelle membra sussultanti fino a raggiungerne il petto villoso, qui con un unico colpo secco affondò la mano e metà dell’avambraccio nella carne viva, come se fosse stato una lama acuminata. L’essere guaì un latrato e quando lui ne estrasse il cuore, un organo grande il triplo di quello di un bue, sussultò e giacque immobile. Il cuore strappato pompava ancora e scrosciava sangue, Xewon sfoderò una daga dalla cintola e lo tagliò in due.

Shyar rimase accasciato finché l’uomo non gli fu davanti.

“Coraggio, alzati in piedi. Non ti ha fatto nulla”.

Fu scosso da un tremito.

“Mi hai sentito? Oppure preferisci rimanere seduto qui?”.

Si avventò contro l’uomo colpendolo al petto tanto forte da farlo arretrare.

“ANDATE ALL’INFERNO! Non mi ha fatto nulla, dite?!”.

“Sei vivo”.

“Mi avete gettato qua sotto perché quell’essere mi ammazzasse, per assicurarvi che fosse occupato mentre voi preparavate il vostro dannato incantesimo!”.

“E con questo?”.

L’ammissione lo lasciò attonito.

“Di cosa ti lamenti? Non ti ha ucciso come gli altri. Forse sei troppo indigesto…”, gli afferrò i polsi con la mano libera ma lorda di sangue e lo scansò con decisione, “o troppo gustoso, chissà”.

***

Ripercorsero i corridoi a ritroso, ma prima di risalire Xewon portò le due metà di cuore in una stanza a cui lui non poté accedere. Dovette aspettarlo per alcuni minuti prima che l’uomo ricomparisse per condurlo fuori da quel labirinto. Quando furono nuovamente in vista della luce del giorno, nell’androne principale, Shyar finalmente si allontanò veloce diretto alla porta esterna.

“Dove vai? È ora di preparare la mia cena”.

“Preparatevela da solo”. Aveva quasi raggiunto la porta quando fu afferrato.

“Lasciatemi! Non ho intenzione di rimanere qui un solo minuto di più: voi siete pazzo!”.

“Non tornerai al conclave”.

“Al diavolo il conclave e tutti voi!”.

Fu sbattuto contro la porta chiusa.

“Calmati”.

“Voi avete ucciso quei due ragazzi! Li avete dati in pasto a quell’essere e volevate fare lo stesso con me!”.

“Non sarebbe accaduto loro nulla di male se mi avessero dato ascolto! E anche tu: ti avevo detto di non muoverti”.

“Io non mi sono mosso!”, strepitò colpendo di lato le braccia che lo inchiodavano al battente. “È stato lui a venire da me!”.

Xewon tacque. I suoi occhi avevano assorbito le tonalità cupe della notte incombente. Dopo un momento, senza preavviso, afferrò il colletto alto della sua camicia e gliela lacerò fino in fondo.

Fu troppo sorpreso per reagire in qualche modo, se ne stette semplicemente impalato senza riuscire a respirare. Le mani del suo padrone, ancora scure del sangue del mostro, erano su di lui, sul suo torace…

“Brucerà”, lo avvertì l’uomo.

Un’ondata di sofferenza gli sferzò i graffi lasciati dagli artigli. Spalancando la bocca senza riuscire a proferire suono, si accasciò fra le braccia dello stregone mentre scintille scarlatte solcavano le sue ferite rimarginandole quasi del tutto. Quando riuscì a respirare di nuovo l’altro si era già allontanato da lui.

“Fra un paio di giorni non sentirai neppure prurito. Adesso va a farti un bagno caldo, poi prepara qualcosa da mangiare e portamela nello studio”.

***

È così che ha guarito il mio polso? Si chiese mentre insaporiva le verdure con uova e formaggio fresco. Aveva i capelli ancora umidi del bagno ed un tremore nervoso per tutto il corpo. Non riusciva a trasportare il vassoio senza farlo ondeggiare e tintinnare, così portò i piatti e la caraffa d’acqua direttamente fra le braccia.

Lo stregone non si lamentò per quell’accorgimento e non replicò neppure quando lui versò un po’ di liquido cercando goffamente di riempirgli la coppa.

“Puoi andare. Porterai via questa roba domani mattina. Hai bisogno di dormire”.

“Sapete bene che non riuscirò a chiudere occhio!”, borbottò. Stava esagerando. Il comportamento del suo padrone era il più vicino alla gentilezza che avrebbe mai potuto ottenere, ma replicando in modo così impertinente…

L’uomo infatti si alzò.

“Stai cercando di farmi irritare?”.

La sua sfacciataggine ebbe un tracollo di fronte a quella figura imponente, ma non volle demordere, “Credo che voi lo siate sempre, irritato intendo…”. Avrebbe detto qualcos’altro se lo stregone non avesse sollevato una mano e non gli avesse picchiettato la fronte con l’indice sinistro. Chiuse immediatamente gli occhi e le ginocchia gli si piegarono. Prima di perdere conoscenza, tuttavia, fu sicuro di intravedere un sorriso davanti a sé.

***

Si risvegliò sul duro pavimento dello studio, l’alba filtrava dalle tende tirate a metà. Si drizzò seduto strofinandosi gli occhi e le ossa infreddolite ed ammaccate. Xewon non gli aveva gettato addosso nemmeno una coperta. …Però aveva fatto in modo che dormisse.

La candela dello scrittoio era fredda da ore. Shyar si affacciò nell’altra stanza, dove il suo signore era immerso nel sonno. Aveva il volto girato dalla parte opposta, così poté vederne soltanto i capelli argentati ed il petto nudo sollevarsi ed abbassarsi ad un ritmo regolare.

Gli accadimenti del giorno precedente lo assalirono con il loro terrificante sentore, eppure non riuscì a smettere di fissare quell’uomo che ora sembrava così placido ed indifeso.

Sono uno stupido. Se non me ne vado di qui, finirò per farmi uccidere in uno dei suoi esperimenti disgustosi…

Shyar sospirò e tornò nello studio raccogliendo gli avanzi della cena, era sicuro che se si fosse avvicinato troppo lo stregone avrebbe spalancato quei dannati occhi.

Scese in cucina dove si mise a preparare la colazione per quando il suo signore si sarebbe destato. Dopodiché vuotò la tinozza che aveva usato per farsi il bagno la sera precedente e rassettò la stanza. Fece tutto come se nulla fosse mai accaduto, come se l’intero incidente con il mostro fosse dimenticato.

Ma lui non avrebbe dimenticato. E nemmeno il suo padrone, ne era certo.

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