Home
altre notizie
Forum
area download
Contatti
Links
Edicola
Meteo
Condividi

Raccolta di articoli recuperati in rete . Vengono sempre citate le fonti nel rispetto dell’autore

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

ULTIME NOTIZIE



 
22/07/2011
Al via la sperimentazione per un “vaccino” contro l’Alzheimer
Nuova conferma dell’eccellenza del Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale S. Agostino Estense di Baggiovara. La struttura diretta dal professor Paolo Nichelli è infatti stata inserita tra i quattro centri italiani, 64 in tutto il mondo, che svilupperanno uno studio per mettere a punto una cura di prevenzione all’Alzheimer. Una strada sino a ora mai esplorata per contrastare una malattia che oggi solo in Italia colpisce circa 700 mila persone.

«L’obiettivo – spiega il professor Paolo Nichelli – è superare l’attuale trattamento, di tipo sintomatico, e intervenire su soggetti solo a rischio di sviluppare la malattia. Quando si parla della ricerca che ci vedrà coinvolti, anche se impropriamente, si fa riferimento a uno studio volto a individuare un vaccino. In modo scientificamente più preciso, si vogliono mettere a punto farmaci in grado di agire nella cosiddetta fase prodromica, ossia nel periodo in cui il processo patologico è latente e la dotazione neuronale del paziente ancora relativamente integra».

Lo studio non verrà effettuato su persone malate, bensì ad alto rischio di sviluppare la malattia. Complessivamente durerà 2 anni e 5 mesi e prevede la somministrazione mensile del farmaco Gantanerumab attraverso iniezioni sottocutanee su tre gruppi di pazienti. Applicando i rigorosi protocolli previsti in questi casi, a un primo gruppo verranno iniettati 105 milligrammi di farmaco, a un secondo 225, mentre un terzo gruppo riceverà un placebo (ossia nessun farmaco). In questi giorni, in particolare, è in corso la fase di screening, ossia di reclutamento dei pazienti. Potenziali partecipanti saranno persone che già oggi sono seguite in ambulatorio.

Giuseppe Caroli, direttore generale dell’azienda Usl di Modena, ha aggiunto che: «La scelta di inserire la Clinica Neurologica dell’Ospedale di Baggiovara in un progetto così importante, conferma la qualità dei nostri professionisti e la capacità di unire la ricerca all’attività clinica. Ulteriore motivo di soddisfazione è il coinvolgimento di giovani ricercatori tra i quali spicca la dottoressa Manuela Tondelli, che ha avuto la possibilità di crescere all’interno della nostra struttura».

fonte Gazzetta di Modena

 
19/10/2010
ALZHEIMER: VITAMINA B12 NE RALLENTA LO SVILUPPO

(AGI) - Washington, 19 ott. - Alti livelli nel sangue di vitamina B12 potrebbero proteggere dall'Alzheimer. Lo suggerisce uno studio svedese pubblicato dalla rivista 'Neurology', condotto su 271 pazienti di eta' compresa tra i 65 e i 79 anni, tutti sani, e seguiti per 7 anni. In questo lasso di tempo a 17 persone soggetti e' stata diagnosticata la malattia, e dalle analisi del loro sangue e' emerso che il livello di vitamina B12 era piu' basso degli altri, mentre erano alti i livelli di omocisteina, una molecola gia' legata sia alla demenza sia ai problemi cardiaci, che puo' essere 'abbattuta' dalla vitamina. "Anche se su pochi casi", scrivono gli autori, "questo studio incentiva ricerche piu' ampie su possibili terapie a base di vitamine B, e sulla loro efficacia nel rallentare l'Alzheimer e altre forme di demenza".

 
06/10/2010
UN BASSO LIVELLO E' LEGATO ALL'INSORGENZA DELLA MALATTIA
 
(AGI) - Washington, 6 ott. - Un basso livello di testosterone e' legato all'insorgenza dell'Alzheimer. Lo ha dimostrato uno studio condotto dall'universita' di Hong Kong, che suggerisce che questo ormone potrebbe un giorno essere usato per combattere la malattia. I ricercatori hanno studiato 153 cinesi di almeno 55 anni non affetti dalla patologia, di cui 47 avevano leggeri problemi cognitivi e piccole perdite di memoria. Dopo un anno, 10 di questi hanno sviluppato l'Alzheimer, e dalle analisi del sangue e' risultato un basso livello di testosterone, un elevato livello della proteina 'ApoE 4', legata alla malattia, e un'alta pressione. "E' un risultato importante, perche' mostra che il livello di testosterone e' uno dei fattori di rischio - ha commentato John Morley dell'Universita' di Saint Louis, che ha partecipato allo studio pubblicato dal Journal of Alzheimer's Disease - il prossimo passo sara' studiare su larga scala l'uso del testosterone per prevenire l'insorgenza della malattia". .
 
24/08/2010
Una proteina prodotta dall'artrite combatte l'Alzheimer

Una proteina usata per combattere l’infiammazione causata dall’artrite reumatoide è risultata efficace per ridurre i sintomi dell’Alzheimer, in particolare la perdita di memoria che è una delle conseguenze più gravi di questa malattia neuro-degenerativa. Lo hanno scoperto ricercatori della University of South Florida, il cui studio è stato pubblicato dal Journal of Alzheimer’s Research.

Gli scienziati hanno trattato cavie da laboratorio che manifestavano problemi di memoria simili a quelli causati dall’Alzheimer con la proteina chiamata Gm-Csf, che è un fattore di crescita stimolante le colonie di macrofagi, componenti del sistema immunitario che si occupano di eliminare agenti patogeni e sostanze nocive. Nella terapia dell’artrite, eliminano le sostanze che provocano i gonfiori dovuti all’infiammazione, ma si sono dimostrati efficaci anche nell’eliminare le “placche beta amiloidi” del cervello, uno dei fattori che provocano i sintomi dell’Alzheimer.

Al termine dello studio, durato 20 giorni, le cavie a cui era stata somministrata la proteina non presentavano più sintomi, e le placche si erano ridotte di oltre il 50 per cento. Anche il gruppo di controllo di cavie sane a cui era stata somministrata la Gm-Csf ha mostrato capacità cognitive migliorate. I ricercatori sono si sono meravigliati, in particolare, della rapidità con il quale il farmaco aveva prodotto un annullamento della sintomatologia, ovvero soltanto venti giorni.

«Il prossimo passo», ha detto uno degli autori dello studio, il professor Huntington Potter, «sarà testare la proteina sui pazienti come potenziale trattamento per l’Alzheimer». La sostanza è già prodotta sinteticamente, ed è disponibile in commercio col nome di Leukine. Viene usata anche nella terapia di alcuni tumori, come il melanoma.

fonte:

 
12/08/2010
USA, un test infallibile in grado di identificare l'Alzheimer

 

(AGI/WSI) New York ? Un test infallibile in grado di identificare l'Alzheimer nelle persone che soffrono di perdita di memoria. A questo sono arrivate le ricerche di un team di scienziati Usa. Lo scrive il NY Times. Analizzando i fluidi cerebrospinali il sistema garantisce una precisione del 100%. In precedenza l'unico modo per scoprire la presenza del morbo, in grado di svilupparsi 10 anni prima che i primi sintomi si palesino, era tramite autopsia. -


By GINA KOLATA
Published: August 9, 2010

Researchers report that a spinal fluid test can be 100 percent accurate in identifying patients with significant memory loss who are on their way to developing Alzheimer’s disease.

Although there has been increasing evidence of the value of this and other tests in finding signs of Alzheimer’s, the study, which will appear Tuesday in the Archives of Neurology, shows how accurate they can be. The new result is one of a number of remarkable recent findings about Alzheimer’s.

After decades when nothing much seemed to be happening, when this progressive brain disease seemed untreatable and when its diagnosis could be confirmed only at autopsy, the field has suddenly woken up.

Alzheimer’s, medical experts now agree, starts a decade or more before people have symptoms. And by the time there are symptoms, it may be too late to save the brain. So the hope is to find good ways to identify people who are getting the disease, and use those people as subjects in studies to see how long it takes for symptoms to occur and in studies of drugs that may slow or stop the disease.

Researchers are finding simple and accurate ways to detect Alzheimer’s long before there are definite symptoms. In addition to spinal fluid tests they also have new PET scans of the brain that show the telltale amyloid plaques that are a unique feature of the disease. And they are testing hundreds of new drugs that, they hope, might change the course of the relentless brain cell death that robs people of their memories and abilities to think and reason.

“This is what everyone is looking for, the bull’s-eye of perfect predictive accuracy,” Dr. Steven DeKosky, dean of the University of Virginia medical school, who is not connected to the newresearch, said about the spinal tap study.

Dr. John Morris, a professor of neurology at Washington University, said the new study “establishes that there is a signature of Alzheimer’s and that it means something. It is very powerful.”

A lot of work lies ahead, researchers say — making sure the tests are reliable if they are used in doctors’ offices, making sure the research findings hold up in real-life situations, getting doctors and patients comfortable with the notion of spinal taps, the method used to get spinal fluid. But they see a bright future.

Although the latest PET scans for Alzheimer’s are not commercially available, the spinal fluid tests are.

So the new results also give rise to a difficult question: Should doctors offer, or patients accept,commercially available spinal tap tests to find a disease that is yet untreatable? In the research studies, patients are often not told they may have the disease, but in practice in the real world, many may be told.

Some medical experts say it should be up to doctors and their patients. Others say doctors should refrain from using the spinal fluid test in their practices. They note that it is not reliable enough — results can vary by lab — and has been studied only in research settings where patients are carefully selected to have no other conditions, like strokes or depression, that could affect their memories.

“This is literally on the cutting edge of where the field is,” Dr. DeKosky said. “The field is moving fast. You can get a test that is approved by the F.D.A., and cutting edge doctors will use it.”But, said Dr. John Trojanowski, a University of Pennsylvania researcher and senior author of the paper, given that people can get the test now, “How early do you want to label people?”

Some, like Dr. John Growdon, a neurology professor at Massachusetts General Hospital who wrote an editorial accompanying the paper, said that decision was up to doctors and their patients.

Sometimes patients with severe memory loss do not have the disease. Doctors might want to use the test in cases where they want to be sure of the diagnosis. And they might want to offer the test to people with milder symptoms who want to know whether they are developing the devastating brain disease.

One drawback, though, is that spinal fluid is obtained with a spinal tap, and that procedure, with its reputation for pain and headaches, makes most doctors and many patients nervous. The procedureinvolves putting a needle in the spinal space and withdrawing a small amount of fluid.

Dr. Growdon and others say spinal taps are safe and not particularly painful for most people. But, he said, there needs to be an education campaign to make people feel more comfortable about having them. He suggested that, because most family doctors and internists are not experienced with the test, there could be special spinal tap centers where they could send patients.

The new study included more than 300 patients in their 70s, 114 with normal memories, 200 with memory problems and 102 with Alzheimer’s disease. Their spinal fluid was analyzed for amyloid beta, a protein fragment that forms plaques in the brain, and for tau, a protein that accumulates in dead and dying nerve cells in the brain. To avoid bias, the researchers analyzing the data did not know anything about the clinical status of the subjects. Also, the subjects were not told what thetests showed.

Nearly every person with Alzheimer’s had the characteristic spinal fluid protein levels. Nearly three quarters of people with mild cognitive impairment, a memory impediment that can precede Alzheimer’s, had Alzheimer’s-like spinal fluid proteins. And every one of those patients with the proteins developed Alzheimer’s within five years. And about a third of people with normal memories had spinal fluid indicating Alzheimer’s. Researchers suspect that those people will develop memory problems.

The prevailing hypothesis about Alzheimer’s says that amyloid and tau accumulation are necessary for the disease and that stopping the proteins could stop the disease. But it is not yet known what happens when these proteins accumulate in the brains of people with normal memories. Theymight be a risk factor like high cholesterol levels. Many people with high cholesterol levels never have heart attacks. Or it might mean that Alzheimer’s has already started and if the person lives long enough he or she will with absolute certainty get symptoms like memory loss.

Many, like Dr. DeKosky, believe that when PET scans for amyloid become available, they will be used instead of spinal taps, in part because doctors and patients are more comfortable with brain scans.

And when — researchers optimistically are saying “when” these days — drugs are shown to slow or prevent the disease, the thought is that people will start having brain scans or spinal taps for Alzheimer’s as routinely as they might have colonoscopies or mammograms today.

For now, Dr. DeKosky said, the days when Alzheimer’s could be confirmed only at autopsy are almost over. And the time when Alzheimer’s could be detected only after most of the brain damage was done seem to be ending, too.

“The new biomarkers in CSF have made the difference,” Dr. DeKosky said, referring to cerebral spinal fluid. “This confirms their accuracy in a very big way.”

 

 
06/07/2010
Alzheimer, King's College di Londra scopre nuovo biomarcatore nel sangue

Un nuovo test sul sangue per predire lo sviluppo dell'Alzheimer già 10 anni prima della manifestazione dei sintomi di demenza potrà essere presto messo a punto sulla base dei risultati di uno studio dell'Istituto di Psichiatria del King's College di Londra (KCL) pubblicato oggi su Archives of General Psychiatry.

E' l'apolipoproteina J ("clusterin") il potenziale biomarcatore, facilmente misurabile con esami di laboratorio su un prelievo di sangue, indagato dai ricercatori britannici, che hanno messo in relazione alti livelli di questa proteina con l'atrofia della corteccia entorinale (una regione dell'ippocampo connessa diffusamente con le altre aree del cervello e implicata nei processi mnestici), i deficit di memoria caratteristici della malattia e la sua rapida progressione.

"I risultati della nostra ricerca, che ha analizzato i dati dello studio multicentrico europeo AddNeuroMed e del Baltimore Longitudinal Study of Aging, al momento mettono solo in evidenza il ruolo dell'apolipoproteina J nella patogenesi dell'Alzheimer, ma ci auguriamo che nuovi studi confermeranno questa proteina quale vero e proprio biomarker della malattia, in modo da poterlo utilizzare quale test per la sua diagnosi precoce", ha dichiarato oggi in una nota stampa Simon Lovestone del britannico Alzheimer's Research Trust (ART), ente che ha finanziato in parte la ricerca.

"Il principale obiettivo della ricerca attuale sull'Alzheimer è quello di sviluppare un test poco costoso e facilmente eseguibile per identificare e monitorare la progressione di questa devastante malattia e l'apolipoproteina J (clusterin) può rappresentare il marcatore del sangue capace di predirne la patologia e i sintomi, già 10 anni prima della loro manifestazione", ha dichiarato oggi al Daily Mail Madhav Thambisetty, ricercatore del King's College e primo autore dello studio.

fonte:

 
20/06/2010
[...] nel nervo ottico c'è una spia che prevede l'Alzheimer.

Il Parkinson si scopre dalla voce

E nel nervo ottico c'è una spia che prevede l'Alzheimer. Nuove ipotesi per individuare precocemente alcune
gravi malattie neurologiche

MILANO - Forse gravi malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer potranno essere previste. L’Alzheimer, con una decina d'anni d'anticipo, semplicemente studiando gli occhi dei pazienti. La malattia di Parkinson, anni prima che si manifesti, individuando sottili alterazioni della voce non percepibili dall’orecchio umano. La scoperta che riguarda L’Alzheimer è stata presentata pochi giorni fa al congresso della Società di medicina nucleare, a Salt Lake City (USA), da ricercatori australiani diretti da Christopher Rowe dell'Austin Hospital di Victoria. Per tenere sotto controllo

il sistema nervoso, il nervo ottico è la struttura più accessibile: esaminando con la PET (tomografia a positroni) quello di oltre 200 anziani, sani e malati, i ricercatori hanno scoperto che fra le sue fibre si accumulano ammassi di proteina beta-amiloide molto prima che questi infarciscano il cervello, dove costituiscono il segno inequivocabile dell'Alzheimer: la loro presenza nel nervo ottico aumenterebbe di 13 volte il rischio di sviluppare la malattia. «Finora le placche di beta amiloide sono individuate nel cervello quando il processo neurodegenerativo è ormai in fase avanzata — commenta Carlo Caltagirone, direttore scientifico dell’Istituto Santa Lucia di Roma — e le terapie cercano di evitare che queste formazioni si accrescano, non essendo ancora possibile farle regredire. Sapere in anticipo quando stanno iniziando a formarsi offre una chance insperata: avviare il trattamento prima che si siano instaurati danni irreversibili e scegliere anche il momento ottimale per farlo, mentre finora gli interventi terapeutici, sia quelli sintomatici sia quelli destinati a modificare l'andamento della malattia, sono inevitabilmente tardivi».

PARKINSON E VOCE - E un’opportunità simile arriva anche il Parkinson: le alterazioni della voce appena scoperte si svilupperebbero anni prima del manifestarsi della patologia e non vanno confuse con la disartria, difficoltà nell’articolare le parole, cui vanno incontro i malati nelle fasi avanzate. Per accorgersi delle alterazioni precoci c'è voluto uno speciale computer capace di analizzare la voce e l'articolazione dei suoni, messo a punto dai ricercatori del Dipartimento di scienze della comunicazione dell'Università israeliana di Haifa, diretti da Shimon Sapir. La scoperta è stata appena pubblicata sul Journal of Speech, Language, and Hearing Research e rappresenta un cambio di marcia nella diagnosi precoce, perché si tratta di una tecnica non invasiva, ripetibile, accurata e poco costosa, che richiede al paziente solo di dire un paio di frasi davanti a un microfono. Se l'analisi acustica identifica le alterazioni, rilevabili soprattutto nelle vocali, si può iniziare un trattamento preventivo molto prima, un’opportunità che fa guadagnare anni e qualità di vita evitando, secondo gli autori dello studio, che il 60% dei neuroni deputati al controllo dei movimenti sia distrutto dalla malattia. L'analisi del linguaggio potrebbe presto entrare a far parte della batteria di test utilizzati per i segni e sintomi non motori del Parkinson, come la microcalligrafia, le alterazioni cognitive o quelle olfattive, che si sono dimostrati importanti quanto quelli classici della rigidità muscolare, dei tremori, del rallentamento, o della perdita di equilibrio. Peraltro, l’analisi della voce ha costi irrisori rispetto ai metodi diagnostici di imaging, soprattutto considerandone il possibile l'impiego sulla vasta popolazione a rischio. «È bene sottolineare che le alterazioni vocali "spia" della malattia non sono percepibili se non dal computer. La scoperta non deve, perciò, indurre a scambiare un po' di raucedine per un primo segno di Parkinson — avverte Gianni Pezzoli, direttore del centro per la malattia di Parkinson degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano —. Se il nuovo metodo funzionerà, comunque, è possibile che agendo con un tale anticipo, si possa rallentare o addirittura impedire il processo neurodegenerativo, cosa che ancora nessun farmaco riesce a fare».

Cesare Peccarisi

fonte:

 
31/05/2010
Secondo una ricerca americana, il morbo non si può prevenire


Preoccupante verdetto di un comitato di esperti «ad hoc» creato dall' Istituto nazionale della salute Usa (Nih) per studiare il morbo di Alzheimer: «Non esiste al momento prova scientifica che il morbo possa in alcun modo venire prevenuto», ha concluso la commissione.
«Vorremmo proprio poter affermare che fare un puzzle al giorno o prendere una certa pillola può tenere a bada l'insorgere dell'Alzheimer ma purtroppo non abbiamo trovato alcun riscontro scientifico ad ipotesi simili», ha ammesso Martha Daviglus, professore alla Northwestern University che ha presieduto il comitato indipendente.
I 15 esperti hanno studiato per mesi dozzine di ricerche in materia alla ricerca di indizi che indicassero una qualche misura per prevenire il morbo, ma nel migliore dei casi sono state trovate solo delle associazioni.
«Si tratta di associazioni che non provano nulla - ha però spiegato Daviglus - perché ad esempio individuare una inferiore presenza dell'Alzheimer tra le persone più fisicamente attive e mentalmente acute non significa che queste attività fisiche o cerebrali prevengono la malattia».
Negli ultimi anni una serie di indagini avevano invece suggerito la possibilità che esercitare la mente ed il corpo potesse prevenire il morbo. Del comitato hanno fatto parte medici, geriatri, infermieri, psichiatri.
L'Alzheimer colpisce oggi in America 5,3 milioni di cittadini e per il 2050 i malati potrebbero salire a 16 milioni.

fonte:

 
26/05/2010
Ricercatori scoprono un modo per generare neuroni

 
Ricercatori in parte finanziati dall'UE hanno convertito le cellule gliali del cervello in due diverse classi funzionali di neuroni. I loro risultati, pubblicati sulla rivista Public Library of Science (PLoS) Biology, potrebbero portare a importanti progressi nel trattamento di malattie neurodegenerative come l'Alzheimer o l'ictus. Lo studio è stato in parte finanziato dal progetto EUTRACC ("European transcriptome, regulome and cellular commitment consortium"), che è sostenuto con 12 milioni di euro nell'ambito dell'area tematica "Scienze della vita, genomica e biotecnologie per la salute" del Sesto programma quadro (6° PQ).

Le cellule gliali (o cellule della glia), comunemente conosciute come il collante del sistema nervoso, circondano i neuroni responsabili della trasmissione delle informazioni. Le cellule gliali forniscono sostanze nutritive e ossigeno ai neuroni, e li isolano gli uni dagli altri. Inoltre li proteggono dagli agenti patogeni e rimuovono i neuroni morti.

Questo nuovo studio si è focalizzato sulle astroglia (cellule gliali a forma di stella), uno dei più comuni tipi di cellule gliali. Le astroglia hanno diverse proiezioni che fanno da impalcatura di sostegno per i neuroni. Sono inoltre strettamente legate alle cellule gliali radiali. Durante lo sviluppo embrionale del cervello, queste cellule gliali radiali o si trasformano in neuroni o fungono da impalcatura su cui eseguire la migrazione dei neuroni neonati.

Mentre le astroglia normalmente non hanno il potenziale di generare neuroni, il gruppo di ricerca della professoressa Magdalena Götz e del dottor Benedikt Berninger, del Centro Helmholtz di Monaco di Baviera, in Germania, è riuscito a provocare la loro conversione in due principali classi di neuroni corticali. Più precisamente, le astroglia sono state convertite in neuroni eccitatori e inibitori che - come indica il loro nome - eccitano o inibiscono l'azione nella cellula bersaglio.

Questi risultati sono stati raggiunti grazie all'espressione selettiva di specifici fattori di trascrizione, ovvero di proteine che si legano a sequenze specifiche del DNA (acido desossiribonucleico) e quindi controllano il trasferimento delle informazioni genetiche.

"In questo studio siamo riusciti a riprogrammare i neuroni appena creati, rendendoli capaci di sviluppare delle sinapsi funzionanti. Queste rilasciano - a seconda del fattore di trascrizione utilizzato - sostanze neurotrasmettitrici eccitatorie o inibitorie", dice l'autore principale dello studio, il dottor Christophe Heinrichs della Ludwig Maximilians Universität (LMU) di Monaco di Baviera (Germania).

"I nostri risultati lasciano sperare che la barriera che separa le cellule neuronali e le astroglia - strettamente connesse tra loro - non sia insormontabile", aggiunge il dottor Berninger. Ciò potrebbe aprire nuove strade per la riparazione dei danni neuronali, come quelli causati dalle malattie neurodegenerative, per esempio.

Al progetto EUTRACC hanno collaborato 20 partner, per cercare di determinare la regolazione del genoma umano. Integrato in una rete internazionale, il progetto mira a regolamentare la mappa dei nodi e delle reti genetiche che controllano il processo di differenziazione in tipi cellulari specifici. Il progetto studia i circuiti genetici che controllano la formazione dei tessuti neurali ed il sistema sanguigno.

fonte:

 
24/05/2010
Studio Usa su 700 pazienti sessantenni - LA 'PANCETTA' AUMENTA IL RISCHIO DI Alzheimer

(AGI)
- Londra, 24 mag. - Ci sarebbe un legame tra la 'pancetta' che viene soprattutto con la mezza eta' e lo sviluppo di demenza in eta' senile. Lo afferma uno studio della Boston University pubblicato dalla rivista 'Annals of Neurology'. I ricercatori hanno studiato 700 pazienti con un'eta' media di 60 anni, misurando il loro Indice di massa corporea, la circonferenza e la percentuale di grasso addominale, oltre che le dimensioni del cervello. I soggetti piu' grassi, scrivono gli autori, avevano tutti un volume minore della massa cerebrale. "I nostri dati", ha spiegato Sudha Seshadri, che ha coordinato la ricerca, "suggeriscono una forte connessione tra i soggetti obesi, in particolare quelli con una grande componente di grassi viscerali nell'addome, e il rischio di sviluppare demenza e Alzheimer". -
 
12/05/2010
La demenza porta via il significato dei sapori

Il sapore è letteralmente la spezia di vita e per molta gente vita senza i piaceri della tavola sarebbe impensabile. Eppure appena questo aspetto di vita di tutti i giorni è vulnerabile in determinate demenze degeneranti, con i pazienti che sviluppano le abittudine alimentare anormali compreso i cambiamenti in preferenze dell'alimento, faddism e dente dolce patologico. La nuova ricerca ha rivelato la prova che questi comportamenti sono collegati ad una perdita di significato per i sapori, come riportato nell'emissione del giugno 2010 della corteccia di Elsevier.

Il Dott. Katherine Piwnica-Verme dall'università di Washington a St. Louis, Missouri, insieme al Dott. Jason Warren e colleghi dall'University College di Londra, ha studiato l'elaborazione delle informazioni di sapore in pazienti con demenza semantica, una malattia degenerante che interessa i lobi temporali del cervello. I pazienti con questa circostanza soffrono una perdita profonda del significato delle parole e, infine, delle cose nel mondo at large; inoltre, molti sviluppano una preferenza per gli alimenti insoliti o i miscugli dell'alimento.

I ricercatori hanno verificato il sapore dei pazienti che elabora facendo uso dei fagioli di gelatina: un conveniente ed ampiamente - stimolo disponibile che copre una vasta gamma dei sapori. Le capacità dei pazienti di discriminare ed identificare i sapori e di valutare le combinazioni di sapore secondo la loro convenienza e piacevolezza sono state paragonate alla gente in buona salute della stessi età e precedenti culturali. I pazienti potevano discriminare normalmente i sapori differenti ed indicare se hanno trovato determinate combinazioni piacevoli o non, ma hanno incontrati difficoltà identificare i diversi sapori o valutare la convenienza delle combinazioni particolari di sapore (per esempio, vaniglia e sottaceto).

Questi risultati forniscono la prima prova che il significato dei sapori, come altre cose nel mondo, è commovente nella demenza semantica: ciò è una carenza vero “pentola-modale„ di conoscenza. La ricerca dà gli indizi alla base del cervello per le abittudine alimentare anormali e la valutazione alterata degli alimenti indicati da molti pazienti con demenza. Più largamente, i risultati offrono una prospettiva su come il cervello organizza e valuta quei sapori ordinari che arricchiscono le nostre vite quotidiane.

Note:
L'articolo è “sapore che elabora nella demenza semantica„ da Katherine E. Piwnica-Verme, da Rohani Omar, da Julia C. Hailstone e da Jason D. Warren ed è publicato in corteccia, il volume 46, l'edizione 6 (il giugno 2010), pubblicata da Elsevier in Italia.

Fonte:
Valeria Brancolini, Elsevier
fonte:

 
07/05/2010
Studio dimostra che alcune cellule possono essere rigenerate


L'ESERCIZIO FISICO AIUTA A PROTEGGERE LA MEMORIA

(AGI) - Londra, 7 mag. - L'attivita' fisica contribuisce a proteggere la memoria innescando la rigenerazione delle cellule cerebrali che si perdono con l'eta', a causa di lesioni o per il morbo d'Alzheimer. Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell'Istituto di Immunobiologia Max Planck Institute di Friburgo (Germania) in uno studio pubblicato sulla rivista Cell Stem Cell. La scoperta potrebbe portare a nuovi modi per affrontare la perdita di memoria provocata da diverse cause. Prima si pensava che dalla nascita in poi le cellule cerebrali morte non potevano essere sostituite. Ora, invece, sappiamo che almeno alcune cellule nervose possono essere rigenerate nell'ippocampo, la regione del cervello che svolge un ruolo chiave nell'apprendimento e nella memoria. Tuttavia, una gran parte delle cellule staminali che danno origine a nuovi neuroni restano dormienti negli adulti. La nuova ricerca, condotta sui topi, dimostra come queste cellule possono essere "risvegliate" in seguito ad attivita' fisica o ad attacchi epilettici. Gli scienziati tedeschi hanno scoperto che i topi fisicamente attivi sviluppano i neuroni nell'ippocampo in piu' rispetto agli animali inattivi. "L'esercizio promuove la formazione di nuovi neuroni", ha detto Verdon Taylor, che ha coordinato lo studio. Anche l'attivita' cerebrale anormale, come quella che si verifica durante le crisi epilettiche, e' risultata in grado di innescare la generazione dei neuroni. Secondo Taylor, l'eccessiva formazione di nuove cellule nervose svolge un ruolo nell'epilessia. Gli scienziati hanno identificato diverse popolazioni di cellule staminali neuronali nel cervello dei topi, alcuni delle quali erano attive e altre dormienti. "Nei topi giovani, le cellule staminali si dividono quattro volte piu' frequentemente che negli animali vecchi", ha affermato Taylor. "Tuttavia, il numero di cellule negli animali piu' vecchi e' solo leggermente inferiore. Pertanto, le cellule staminali neuronali non scompaiono con l'eta', ma sono tenuti in riserva", Nei topi fisicamente attivi, alcune cellule staminali precedentemente dormienti sono state viste 'ritornare in vita' e iniziare a dividersi. Altre cellule staminali sporadicamente dormienti sono state influenzate dall'attivita' fisica ma svegliate da crisi epilettiche. Un modello simile di cellule staminali attive e inattive probabilmente vale anche per il cervello umano, secondo gli scienziati. E' quindi probabile che le cellule staminali dormienti potrebbero essere riattivate negli esseri umani allo stesso modo dei topi.

fonte:

 
06/05/2010
L’Alzheimer attacca per prima la memoria

L’ippocampo, area cerebrale della memoria a lungo termine è È la parte del cervello dove risiede la memoria a lungo termine, cioè l’ippocampo, la prima a essere colpita in caso di morbo di Alzheimer: ecco perché spesso è proprio un calo della memoria il primo campanello d’allarme della comparsa della malattia. Quindi, un esame innovativo di questa struttura del cervello e, allo stesso tempo, della memoria, potrebbe aiutare a scoprire precocemente la predisposizione alla malattia.

A rivelarlo è uno studio italiano, condotto dai ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia di Roma e pubblicato su Neurology, la rivista ufficiale dell’American Academy of Neurology.

I neurologi hanno esaminato 76 soggetti, tra i 20 e gli 80 anni, sani e privi di chiari problemi neurologici: sono stati valutati con un test di memoria, sia verbale sia visiva, a lungo termine, e, contemporaneamente, sottoposti a una innovativa tecnica di risonanza magnetica dell’encefalo, chiamata diffusion tensor imagig. Grazie a questo esame è possibile scoprire le eventuali alterazioni della microstruttura dei neuroni.

Si è visto, così, che negli over 50 gli scarsi risultati nel test di memoria sono correlati alla presenza di rilevanti alterazioni microstrutturali dell’ippocampo. Si pensa, quindi, che la presenza di queste due condizioni – alterazioni all’ippocampo e deficit della memoria – possa evidenziare precocemente la predisposizione a sviluppare il morbo di Alzheimer.

Certo, prima di arrivare a conclusioni affrettate occorrerà aspettare le conferme del tempo: ora, per circa tre anni, i soggetti studiati verranno tenuti sotto controllo periodico dai ricercatori, proprio per capire se il metodo usato sia valido.
In quel caso si potrebbero aprire nuove vie non solo nella diagnosi precoce, ma anche nella cura farmacologica, auspicando terapie altrettanto precoci, in grado di modificare il decorso neurodegenerativo dell’Alzheimer.

fonte:

 
27/04/2010
Alzheimer, diagnosi precoce possibile con biomarcatori


MIAMI – Si è appena concluso all'Eden Roc Hotel di Miami Beach l'VIII Simposio annuale sulle fasi iniziali dell'Alzheimer, già MCI Symposium. Gli organizzatori hanno cambiato il nome al tradizionale appuntamento per sottolineare il dato acquisito che “la malattia in realtà si innesca decenni prima dell'osservazione del declino cognitivo, molto prima dei cambiamenti lievi definiti MCI”...

La comunità scientifica è infatti unanime nel ritenere che durante la fase clinicamente “silente” è già in atto il processo patologico legato all'amiloide, alla riduzione del metabolismo cerebrale, alla compromissione e alla morte dei neuroni. La durata di questo periodo asintomatico sembra essere influenzata da fattori genetici, dallo stile di vita e dalla cosiddetta “riserva cognitiva”.

In sostanza, quando si manifestano i tipici sintomi legati alla perdita di memoria, i danni al cervello del paziente sarebbero già a un livello di guardia e predisporrebbero a una progressione verso la demenza.

Il messaggio del simposio di Miami è dunque di concentrare gli sforzi conoscitivi e clinici sui “biomarcatori antecedenti” (livelli di abeta42 e tau, scansioni PET, MRI, fMRI ecc.), che possono essere rilevati nell'organismo sin dalle prime fasi di sviluppo della malattia, come confermano i recenti studi realizzati all'interno della Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative (ADNI).

Dal canto loro i neuropsicologi intervenuti hanno sottolineato la necessità di mettere a punto nuovi test per “misurazioni cognitive” sempre più sofisticate in grado di identificare precocemente e monitorare i cambiamenti funzionali occorrenti nel passaggio dal normale invecchiamento alla condizione di mild cognitive impairment (MCI), costrutto peraltro ancora molto controverso.

Fra i relatori, nomi di rilievo nel panorama delle malattie neurodegenerative dell'invecchiamento, quali John Morris, Clifford Jack, Rhoda Au, Richard Caselli, David Loewenstein, Steven DeKosky, Robert Green, Joseph Quinn, Eric Siemers, Norman Foster, Reisa Sperling, Mark Bondi e Lisa Mosconi.

Le sintesi degli interventi e le slide ppt presentate a Miami sono disponibili sul sito di Alzheimer's Research Forum (alzhforum.org).

Per una rassegna aggiornata degli studi scientifici sui biomarcatori promettenti per la diagnosi precoce dell'Alzheimer, sugli strumenti di valutazione cognitiva dei cambiamenti funzionali nell'invecchiamento e sulle nuove metodologie di analisi "non lineare" dei dati di screening, in Italia è possibile rifarsi al libro di fresca pubblicazione: Marco Mozzoni, Alzheimer, come diagnosticarlo precocemente con le reti neurali artificiali (Franco Angeli Editore 2010).

fonte:

 
26/04/2010
Parte la sperimentazione del vaccino che può rallentare l’Alzheimer


Parte la sperimentazione del vaccino che può rallentare l’Alzheimer

Durante il Brain Forum, convegno in occasione dei 101 anni di Rita Levi Montalcini, Elio Scarpini, dell’Ospedale Maggiore di Milano e del dipartimento di Neuroscienze dell’università di Milano, ha annunciato che tra poco partirà anche in Italia la sperimentazione di fase 2 di un farmaco terapeutico per l’Alzheimer.

Si tratta di una sorta di vaccino che non è in grado di prevenire la malattia, ma di rallentarne la progressione, favorendo la formazione di anticorpi specifici in grado di rimuovere le placche di sostanza beta-amiloide tipiche della patologia.

Il nuovo farmaco, che sarà testato su 30 pazienti di diverse città italiane tra cui Roma, Firenze e Genova, “dovrà però essere somministrato in fase precoce, prima che si sviluppino i danni alla memoria” spiega Scarpini.

Secondo il ricercatore: “c’è la necessità di sviluppare marcatori biologici in grado di segnalare la malattia al primissimo stadio per consentirci di intervenire con il vaccino e di ottenere i migliori risultati possibili”.

La sperimentazione, è internazionale, oltre all’Italia coinvolge diversi paesi europei: Austria, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchiae Croazia.

Già in passato si sono avute sperimentazioni di farmaci per combattere l’Alzheimer basati sulla produzione di anticorpi specifici contro le placche amiloidi, ma nessuna di esse è arrivata alla fase 3, quella in cui la somministrazione del farmaco, considerato sicuro, viene estesa ad un maggior numero di pazienti.

Oggi questa forma di demenza senile colpisce 500mila persone in Italia, 6 milioni in Europa e, nel totale, 26milioni di persone nel mondo.

Questo farmaco, potrà essere a disposizione entro pochi anni, probabilmente a partire dal 2012.

fonte:

Antidoto alla peste dell’Alzheimer: farmaco che vaccina e cura. Tra tre anni sapremo

Un vaccino contro il morbo di Alzheimer, in grado di rallentare fortemente il decorso della malattia. Questo il frutto del lavoro di un gruppo di ricercatori austriaci e che potrebbe portare, nel giro di qualche anno, a trovare finalmente una cura per una delle più insidiose e diffuse malattie della senilità. Per ora il farmaco Ad02 è ancora in fase di sperimentazione e, per la precisione, non è neppure un vero e proprio vaccino visto che viene somministrato a soggetti già ammalati. Ma se i risultati dovessero essere quelli sperati dai ricercatori partirà immediatamente una nuova fase per confezionare un vaccino “puro”, da somministrarsi, cioè, a soggetti sani per prevenire la diffusione del morbo di Alzheimer.

Il nuovo farmaco è frutto di una ricerca del laboratorio britannico GlaxoSmithKline, e ha coinvolto, nella prima fase, diversi paesi europei tra cui Austria, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Croazia. In Italia la sperimentazione è coordinata dalla Fondazione Santa Lucia di Roma e alla nuova fase parteciperanno complessivamente 30 pazienti fra Roma, Milano, Firenze, Genova e Brescia. Si tratta di soggetti di età inferiore ai 55 anni e con una patologia ancora in fase lieve o moderata. Il vaccino, infatti, non è in grado di far regredire la malattia ma ne rallenta fortemente il decorso.

Spiega Elio Scarpini, neurologo dell’Università di Milano che “il vaccino sarà sia preventivo sia terapeutico e già su modello animale, topi e scimmie per la precisione, ha dimostrato di ridurre in maniera significativa le placche senili che si formano nel cervello e che sono la base della malattia di Alzheimer”. Al momento l’Ad02 ha brillantemente superato la prima fase di test risultando, secondo quanto detto dallo stesso Scarpini “ben tollerato” dai volontari che si sono sottoposti alla sperimentazione. Il difficile, però, viene adesso perché è dalla fase al via in questi giorni che si attendono le prime e decisive risposte sull’efficacia. Per 0ra, insomma, si sa che l’Ad02 non fa male. A breve sapremo se fa anche bene.

Il funzionamento del nuovo farmaco sulla carta è relativamente semplice: nei soggetti ammalati di Alzheimer si formano una serie di placche che producono infiammazione e perdita di funzionalità da parte dei neuroni. L’Ad02 interviene proprio sulle placche producendo una serie di anticorpi specifici che ne favoriscono il distacco e la successiva eliminazione.

Il morbo di Alzheimer riguarda circa 26 milioni di persone di cui 800.000 in Italia: una cifra destinate a salire di pari passo con l’aumento dell’età media della popolazione. La malattia, che di norma compare dopo i 60 anni anche se non mancano casi precoci, aggredisce le cellule celebrali. In una prima fase i soggetti colpiti accusano solo lievi disturbi della memoria ma, con il procedere della malattia, il quadro clinico peggiora fino a portare ad una sostanziale demenza.

I tempi per la cura anti Alzheimer, ovviamente, sono ancora incerti anche perché un vaccino, prima di diventare tale deve superare tra distinte fasi di test. L’Ad02 ha già brillantemente superato la prima, quella in cui, si misura su un campione ridotto di persone, la sicurezza del preparato. Nella fase 2, invece, il campione di volontari diventa più vasto e si tirano le prime somme sull’efficacia del farmaco. In caso di risposte incoraggianti si arriva alla terza e ultima fase, quella che riguarda campioni di migliaia di persone e precede l’eventuale immissione del vaccino sul mercato. Fino ad oggi, però, nessuna ipotesi scientifica di vaccino anti Alzheimer ha ancora raggiunto la fase 3.

Il nuovo vaccino, ad ogni modo, sembra decisamente sulla strada giusta anche se, per avere risposte definitive, bisognerà aspettare la fine della sperimentazione che non avverrà prima degli ultimi mesi del 2012.

fonte:

 
16/04/2010
Fumare può favorire la demenza

Un nuovo studio mette in dubbio l'utilità della nicotina nel proteggere dall'Alzheimer
Fumare può favorire la demenzaPrecedenti studi avevano affermato che una piccola dose di nicotina proteggesse il cervello dalla placca causata dagli amiloidi nella malattia di Alzheimer; tuttavia non era chiaro il ruolo di questa sostanza sui cosiddetti grovigli neurofibrillari di proteine tau che si formano nelle cellule nervose in via di degenerazione.
Un nuovo studio, sempre su modello animale, mette in dubbio questa potenziale attività benefica sui grovigli di proteine tau.

I ricercatori cinesi della Third Military Medical University di Chongqing (Cina) coordinati dal dottor Yan-Jiang Wang, hanno iniettato placche amiloidi nel cervello di topi sani e fornendogli poi l’equivalente di una dose giornaliera di nicotina di un fumatore medio, il tutto per due settimane. Altri topi, a cui erano comunque state iniettate le placche amiloidi, non hanno ricevuto la nicotina e hanno fatto da gruppo di controllo.
Dalla relazione pubblicata sulla rivista "European Journal of Pharmacology”, si apprende che tutti i topi dei due gruppi hanno mostrato i primi segni della presenza dei grovigli neurofibrillari delle proteine tau. Dopodiché avevano difficoltà a orientarsi e navigare in un labirinto, tuttavia i topi a cui era stata data la dose di nicotina si sono comportati peggio di quelli non trattati ed erano in maggiori difficoltà. Un segno, interpretato dai ricercatori, che indica come la nicotina in questo caso abbia probabilmente un effetto deleterio anziché positivo. Ulteriori studi che possano confermare un collegamento in ambito umano saranno necessari.
(lm&sdp)

fonte

 
14/04/2010
Cervello: i ricordi a volte si cancellano, le emozioni mai


Secondo i risultati di una ricerca realizzata su pazienti con gravi forme di amnesia

ROMA - A volte una persona anziana non e' piu' in grado di ricordare un fatto sepolto nel suo lontano passato, eppure puo' ancora provare il 'brivido' dell'emozione che quel fatto, per esempio la nascita di un figlio, ha prodotto. Anche un individuo malato, la cui memoria e' KO per esempio per via del morbo di Alzheimer, non ricordera' neanche cosa ha fatto 10 minuti prima ma, se quell'azione gli ha prodotto un sentimento, state pur certi che la sua memoria inceppata lo ricordera'. Le emozioni, infatti, secondo una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences, lasciano segni indelebili nel cervello: anche quando i ricordi scompaiono le emozioni loro legate rimangono. La scoperta e' di Justin Feinstein e DanTranel dell'universita' dell'Iowa. Gli esperti hanno osservato pazienti con gravi forme di amnesia e visto che, anche se incapaci di ricordare sia pure un minimo la trama di un film appena visto, ricordano e continuano a provare a lungo le emozioni suscitate dalla visione del film. Questi risultati hanno implicazioni importanti su due fronti: oggi sono in corso molte ricerche volte a trovare un metodo per cancellare il ricordo di un evento traumatico ma, stando a questo studio, anche se cancelli il fatto doloroso non e' detto che cio' basti a cancellare il dolore procurato da quell'episodio; inoltre i malati di Alzheimer, pur ricordando poco o nulla delle loro giornate, hanno 'ricordi emotivi' che non vanno dimenticati per offrire loro un'assistenza di qualita'. Gli esperti hanno osservato la ''memoria emotiva'' di un gruppo di pazienti colpiti da grave amnesia a causa di lesioni a livello dell'ippocampo che e' la sede della nostra memoria ed e' cruciale per il trasferimento delle nuove informazioni nel 'cassetto' della memoria permanente. Questi pazienti hanno difficolta' a ricordare qualsiasi informazione in modo duraturo. I neuropsicologi hanno lasciato vedere per alcuni giorni dei film, commedie o film drammatici per suscitare felicita' o tristezza in questi pazienti. Pur non avendo problemi a ridere o piangere di un film, i pazienti gia' a 10 minuti dalla visione non ricordano minimamente cosa hanno visto. Eppure, e' emerso sottoponendoli a questionari ad hoc per valutare il loro stato emotivo, i pazienti trattengono a lungo le emozioni suscitate dalla visione dei film, soprattutto la tristezza. ''I pazienti continuano a provare le emozioni scatenate dal film, la tristezza piu' a lungo della felicita', entrambi i sentimenti durano molto piu' a lungo di quanto persista in loro il ricordo del film'', ha spiegato Feinstein. Cio' potrebbe significare che non basta cancellare il ricordo di un evento traumatico per cancellare il dolore legato a quell'evento. Inoltre, ha concluso Feinstein, e' necessario tener conto di questi risultati per assistere con umanita' un malato di Alzheimer: questo non si ricordera' di certo una telefonata affettuosa di un parente ma manterra' il bel ricordo dell'emozione suscitata da quella chiamata. Viceversa se lo si trattera' con non curanza e poco rispetto, il malato se ne ricordera' anche se la sua memoria non funziona.

fonte:

 
13/04/2010
ALZHEIMER, IL RISCHIO SI RIDUCE CON NOCI PESCE E POMODORI


(ASCA) - Roma, 13 apr - Pesce, pollo, frutta, verdura e noci: ecco gli ingredienti della dieta anti-Alzheimer, secondo quanto emerge da uno studio pubblicato su Archives of Neurology dai ricercatori della Columbia University di New York, negli Usa, guidati da Nikolaos Scarmeas.

La ricerca, durata quattro anni e condotta sulle abitudini alimentari di 2.148 soggetti di 65 anni, ha dimostrato che una dieta ricca di noci, pesce, pomodori, pollo, verdure crucifere (come broccoli e cavolfiori), verdure a foglia verde (come barbabietole, carote, sedano e lattuga) e scura (come bieta e spinaci) e povera invece di carne rossa, interiora e burro, risulta in grado di ridurre il rischio di Alzheimer del 38%.

''Lo studio ha dimostrato che questa combinazione di alimenti influenza il livello di acidi grassi e vitamine - spiega Scarmeas -. In tal modo influenza anche il rischio di sviluppare l'Alzheimer''.

 
08/04/2010
Alzheimer, italiana nuova tecnica misurazione atrofia calloso

Italiana nuova tecnica misurazione atrofia calloso in Alzheimer e MCI.Un gruppo di ricerca italiano coordinato da Margherita Di Paola del Laboratorio di Neurologia Clinica e Comportamentale dell'IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma ha messo a punto una nuova tecnica multimodale di risonanza magnetica in grado di analizzare i cambiamenti strutturali che hanno luogo nel corpo calloso di pazienti con declino cognitivo lieve (MCI) e Alzheimer in fase iniziale. Lo studio è pubblicato su Neurology.

In particolare, gli MCI amnesici (declino cognitivo presente solo nel dominio della memoria) presenterebbero una significativa atrofia macrostrutturale esclusivamente nella sezione anteriore del calloso (il fascio di fibre di sostanza bianca che mette in connessione i due emisferi del cervello), mentre nella fase iniziale dell'Alzheimer (stadio generalmente successivo alla condizione prodromica definita MCI) l'atrofia si estenderebbe alle subsezioni posteriori, comportando inoltre modifiche complessive a livello microstrutturale.

Il campione di pazienti allo studio, reclutato in tre cliniche italiane, era composto da 38 soggetti con Alzheimer lieve, 38 con MCI amnesico, 40 controlli.

Tenendo presente che già precedenti lavori avevano messo in luce la particolare suscettibilità all'atrofia del corpo calloso nel corso dell'Alzheimer, la novità di questo studio – precisano i ricercatori nel paper – è stata la possibilità, attraverso l'uso simultaneo di diversi parametri di imaging a tensore di diffusione (DTI) e di morfometria a voxel (VBM), di osservare le differenze intrinseche dei cambiamenti della sostanza bianca callosale nei pazienti, così da poter formulare ipotesi sui diversi meccanismi alla base del processo degenerativo.

Ebbene, due sono i meccanismi individuati dal gruppo di ricerca che ha visto fra i collaboratori anche l'Università abruzzese di L'Aquila Coppito, l'Università di Roma Tor Vergata e gli Ospedali romani San Camillo e San Giovanni Addolorata: la degenerazione walleriana nelle subregioni posteriori del calloso (suggerita da una aumentata diffusività assiale in assenza di modificazioni frazionali anisotrope) e un processo di retrogenesi nelle subregioni anteriori (suggerite da una aumentata diffusività radiale in assenza di modificazioni nella diffusività assiale).

“Sulla base di questi risultati, l'auspicio è che la tecnica messa a punto dal nostro gruppo di ricerca possa presto entrare a far parte della routine clinica, ai fini della diagnosi precoce dell'Alzheimer, anche se, ovviamente, il cambiamento strutturale del calloso misurabile con risonanza magnetica non può essere l'unico marcatore da tenere in considerazione”, ha spiegato Margherita Di Paola a BrainFactor.

Supportata nei suoi lavori di ricerca dal Ministero della Salute, la dottoressa Di Paola ritiene che il nostro Paese sta facendo a sufficienza nella prevenzione dei disturbi cognitivi dell'invecchiamento, “anche se, parlando di ricerca, l'impegno di energie per lo studio e la comprensione dei diversi aspetti dell'invecchiamento cerebrale non è mai sufficiente”.

Infine, come neuropsicologa, si dice fiduciosa che “anche di fronte all'avanzare di queste tecniche più 'oggettive' di misurazione, la valutazione neuropsicologica resterà sempre una componente importante all'interno del processo diagnostico, che deve tenere in considerazione i molteplici risvolti della fisiologia e della patologia umana”.

 

fonte

 
06/04/2010
CELLULE IMMUNITARIE CERVELLO CRUCIALI IN ALZHEIMER

ROMA, 6 APR - Alcune cellule immunitarie del cervello potrebbero essere la causa della perdita di neuroni associata alla malattia di Alzheimer. Le cellule in questione,sono note come microglia e sono responsabili della sorveglianza immunitaria del cervello.
Un gruppo di ricerca finanziato dall'Unione Europea, che ha coinvolto scienziati della Ludwig-Maximilians-Universitat, in Germania e dell'universita' della California, ha indagato il ruolo della microglia nella eliminazione delle cellule nervose. I ricercatori hanno osservato i processi all'interno del cervello di topi geneticamente modificati, grazie alla microscopia bifotonica e hanno scoperto che la microglia si raccoglie intorno ai neuroni prima che le cellule cerebrali cominciano a morire e non dopo la loro morte con lo scopo di degredarle, come ipotizzato finora. Con il progredire della malattia, le cellule sotto stress produrrebbero un messaggero chimico che attrae la microglia, causa di reazioni infiammatori e responsabili dell'eliminazione dei neuroni. ''Presumiamo che le cellule nervose malate collocate vicino alle placche secernino un messaggero chimico che induce lamicroglia a stabilirsi in esse'' ha precisato Jochen Herms delcentro di ricerca tedesco. I ricercatori hanno poi verificato che silenziando il genedel recettore cruciale per la comunicazione tra neuroni emicroglia, si previene la perdita di cellule nervose.

fonte

 
02/04/2010
GENETICA : LA MAPPA DEL DNA COMPIE DIECI ANNI


C'é ancora tantissimo lavoro da fare. Dieci anni fa la mappa del Dna dell'uomo è stata un grande traguardo, "ma soprattutto il punto di partenza di una lunghissima avventura, sapevamo che avremmo avuto a disposizione una miniera di dati": per il genetista Edoardo Boncinelli, dell'università Vita e Salute di Milano, la differenza rispetto al passato è che "senza ombra dubbio c'é tanto da fare, ma adesso possiamo lavorare".

Scoprire nuove cure è solo una parte del lavoro che aspetta i genetisti per i prossimi 10-20 anni; la vera scommessa è capire come i geni controllano fenomeni complessi come la memoria. "Dieci anni fa la capacità di decifrare il genoma umano è stata un trionfo, che continua anche ora e che finora ha portato molte informazioni", osserva. "Come ricercatore - aggiunge - mi colpisce la possibilità di confrontare il nostro genoma con quello di altre specie, come lo scimpanzé. Questo ha due effetti: da un lato dà corpo definitivamente alla teoria dell'evoluzione perché verificare somiglianze e differenze nei Dna è come ripercorrere il processo evolutivo".

Al di là di questo valore conoscitivo, per Boncinelli la mappa del Dna umano ha avuto aspetti applicativi importanti: "è stata utile essenzialmente a migliorare la conoscenza dei tumori e a studiare aspetti del genoma che senza questo strumento sarebbe stato impossibile capire".

Per esempio, una delle scoperte tanto produttive quanto impreviste è stata quella dei micro Rna, le piccole sequenze di geni che come registi regolano l'espressione di altri geni. "È stata - rileva Boncinelli - una scoperta rivoluzionaria, che sarebbe stata impossibile prima del sequenziamento del genoma. Impossibile dire dove ci porterà questa ricerca".

Una delle prime conseguenze potrebbe riguardare ancora una volta l'Evoluzione perché, osserva Boncinelli, dal confronto tra il libretto di istruzioni genetiche dell'uomo e dello scimpanzé emerge che "l'unica differenza solida che per ora sia stata trovata è in 50 micro Rna che l'uomo ha e lo scimpanzé no". Il dato di fatto che la dice lunga sul lavoro da fare è che nei dieci anni appena trascorsi si è riusciti a studiare appena il 30% del Dna umano. "Non sappiamo comprendere il 70% del nostro genoma", rileva il genetista. Un serio aiuto potrà venire dai programmi di analisi sempre più efficienti e complessi messi a punto dagli esperti di bioinformatica, capaci di analizzare rapidamente le sequenze di Dna. "Tutti sono sicuri che sarà un'esplosione rivoluzionaria, ma al momento è solo una promessa. Siamo nella situazione di chi commenta un testo antico di cui non si conosce la lingua". Sono almeno due, secondo Boncinelli, le grandi scommesse sul genoma umano.

La prima consiste nel capire come viene regolata l'attività dei geni perché, spiega, "la regolazione controlla tutto, dai tumori alle malattie cardiocircolatorie, all'Alzheimer". La seconda, ancora più difficile, è scoprire come i geni regolano la memoria: "poiché non sappiamo come e dove sono scritti i nostri ricordi, l'unica possibilità di risolvere l'enigma è che ci siano regioni del genoma specializzate nel codificare i ricordi".

http://www.finanzainchiaro.it
Di redazione (del 02/04/2010 @ 07:41:14, in Scienze e Società

 
31/03/2010
RICERCA: SIENA BIOTECH E ROCHE INSIEME PER CURA ALZHEIMER

(ASCA) - Siena, 31 mar - La societa' farmaceutica Roche esercitera' anticipatamente il diritto di opzione per il proseguimento dello sviluppo clinico, della produzione ed eventuale distribuzione di alcune molecole candidato che potrebbero rappresentare terapie innovative contro la malattia di Alzheimer. Lo comunica Siena Biotech, la societa' strumentale della Fondazione Mps, che ha sviluppato la ricerca. Siena Biotech ha ricevuto un primo pagamento relativo all'esercizio dell'opzione e potra' ricevere ulteriori pagamenti allorche' il prodotto sviluppato da Roche raggiunga prestabiliti traguardi nello sviluppo e registrazione. A seguito della riuscita dello sviluppo clinico e dell'introduzione sul mercato del relativo prodotto, Siena Biotech ricevera' inoltre royalty sulle vendite dello stesso. Siena Biotech mantiene anche il diritto di svolgere attivita' di ricerca e sviluppo su nuove molecole identificate nel corso della collaborazione per indicazioni nelle malattie rare.

''Questo progetto - spiega il dottor Giovanni Gaviraghi, amministratore delegato e direttore generale di Siena Biotech -rappresenta uno dei vari esempi di molecole frutto della nostra ricerca che si stanno avvicinando o gia' hanno raggiunto gli studi clinici, con la concreta possibilita' di portare a fruizione a favore dei numerosi pazienti affetti da malattie neurodegenerative oggi incurabili nuovi efficaci trattamenti. E' nostro convincimento che la scelta di Roche di progredire questo progetto accelerera' ulteriormente il suo sviluppo, cosi' fornendo a Siena Biotech ulteriori risorse da investire in altri progetti del proprio portafoglio da avanzare in sviluppo clinico''.

afe/mcc/ss

 
28/03/2010
nuova ipotesi genetica spiega la maggiore incidenza nelle donne


Potrebbero essere le donne quelle più esposte al Morbo di Alzheimer e ciò sarebbe riconducibile ad un fattore genetico, lo avrebbe stabilito uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Nature Genetics dal professore Steven Younkin, ricercatore presso il Mayo Clinic College of Medicine (Jacksonville, Florida - Usa), secondo il quale nel cromosoma X potrebbe essere presente una mutazione genetica associata al Morbo di Alzheimer.


La variante genetica che sarebbe coinvolta nella malattia fa parte del gene PCDH11X, capace di controllare la protocaderina, una particolare proteina che se danneggiata non darebbe più la possibilità alle cellule nervose di interconnettersi fra di esse.

Sbagliata dunque l’ipotesi secondo la quale la donna andava incontro all’Alzheimer perché da sempre gode di una vita media più lunga rispetto all’uomo; propendendo invece per questa ipotesi genetica il segreto della maggiore incidenza della malattia nel sesso “debole” risiederebbe nel cromosoma X, che, come sappiamo, è posseduto in forma doppia nella donna che dunque sarebbe maggiormente esposta alla malattia rispetto all’uomo.

Quando la variazione genetica si limita ad un solo cromosoma X della donna, il rischio di insorgenza della malattia di Alzheimer si equivale con quello dell’uomo. Insomma, ci troviamo di fronte ad un’ipotesi molto importante ai fini dell’insorgenza della grave patologia, per lo meno è la prima volta che si attribuisce tanta importanza all’ipotesi genetica del Morbo di Alzheimer nei due sessi, fermo il fatto, tuttavia, che il fattore età resta sempre una variante molto importante da considerare sempre.

 

fonte:

 
27/03/2010
Inventore Ru486: 'ho la cura per l'Alzheimer'
Il medico francese della pillola del giorno dopo chiede finanziamenti per ricerca


PARIGI - Curare il morbo di Alzheimer sarà possibile secondo il professor Etienne-Emile Baulieu, l'inventore della pillola del giorno dopo, la Ru 486. Lo ha detto lui stesso presentando la sua ultima scoperta: una proteina capace di rallentare la demenza degenerativa invalidante che esordisce in prevalenza in età senile. Si chiama Fkbp52, è presente in grande quantità nel cervello (fa parte della famiglia delle immunofiline che si lega a farmaci immunosoppressori) e se stimolata da un farmaco può riparare la Tau, la proteina scoperta da Michel Goedert nel 1988 - che gioca un ruolo importante nel buon funzionamento dei neuroni - che alterandosi con l'età è la principale responsabile dell'Alzheimer e delle demenze senili in genere

Dopo l'"Elisir di eterna giovinezza" (Dhea) e la Ru 486, questo instancabile endocrinologo e biochimico, all'età di 83 anni, pensa quindi di "avere trovato il modo di bloccare l'invecchiamento del cervello". "Ho fatto questa scoperta un anno e mezzo fa - racconta all'ANSA Baulieu - Mi rivedo con il naso sul microscopio nel momento in cui ho osservato che il Tau reagiva. Ho detto a Beatrice Chambraud (una delle ricercatrici della sua equipe all'Istituto della ricerca medica Inserm ndr ): abbiamo trovato come riparare il Tau, guarire l'Alzheimer". "Le nostre ricerche aprono la strada alla possibilità di una diagnosi precoce del morbo - aggiunge - le anomalie biochimiche infatti sono presenti almeno 5 o 10 anni prima dei segnali clinici".

Dopo avere stabilito il legame tra le due proteine i ricercatori hanno mostrato in laboratorio che una forte quantità di Fkbp52 impediva l'accumulo di Tau nelle cellule nervose: "si può dunque trovare un rimedio basato su questa reazione - continua il medico - sono convinto del risultato, che si può fare qualcosa sul piano della conoscenza, del trattamento e della prevenzione". "Tra due o tre anni - continua il medico - se avremo trovato i 5 milioni di euro necessari per finanziare la ricerca, sapremo se funziona davvero. Ora ho la soluzione mi mancano solo gli strumenti". L'annuncio di Baulieu è infatti motivato dal "bisogno di fondi per potere continuare la sperimentazione".

A fare il primo passo è stato Pierre Bergé, il compagno del defunto stilista Yves Saint Laurent, che ha annunciato il suo impegno come mecenate. Grazie alla sua donazione si potranno condurre studi clinici sugli animali, poi sull'uomo e trovare il trattamento per "dopare" questa proteina anti-Alzheimer. "Si vive sempre più a lungo. Un bambino su due nato dopo il 2000 sarà centenario - spiega l'endocrinologo - Ma il cervello invecchia più in fretta del corpo". L'Alzheimer colpisce più di 26 milioni di persone in tutto il mondo, oltre 500.000 in Italia e 800.000 in Francia. Secondo l'ultimo rapporto dell'associazione Alzheimer's Disease International (Adi), nel 2010 le persone che ne soffriranno saranno oltre 35 milioni a livello mondiale che sono destinate a raddoppiare nei prossimi 20 anni: sono attesi 65,7 milioni di malati nel 2030 e ben 115,4 milioni nel 2050.

di Aurora Bergamini

 
26/03/2010
nuovo studio mette in evidenza il ruolo del sistema immunitario


Una nuova ricerca finanziata dall’UE suggerisce che le cellule immunitarie del cervello potrebbero essere la causa della perdita di neuroni associata alla malattia di Alzheimer. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Neuroscience, potrebbero portare allo sviluppo di nuovi trattamenti per le malattie neurodegenerative.

L’Unione europea ha sostenuto il progetto NEURO.GSK3 (“GSK-3 [glycogen synthase kinase 3] in neuronal plasticity and neurodegeneration: basic mechanisms and pre-clinical assessment”), con un finanziamento di 3,57 milioni di euro nell’ambito del tema “Salute” del Settimo programma quadro (7° PQ).

La malattia di Alzheimer è una delle principali cause di demenza tra gli anziani: ben 18 milioni di persone nel mondo soffrono di questo disturbo, e questa cifra è destinata a crescere con l’ invecchiamento della popolazione. La malattia è caratterizzata dalla progressiva e irreversibile perdita di cellule nervose del cervello, associata alla formazione di proteine non solubili che formano le cosiddette placche beta-amiloidi.

fonte

 
22/03/2010
Parlare di calcio combatte l'Alzheimer
Parlare di calcio o, in generale rievocare grandi eventi di sport, aiuta gli individui colpiti da Alzheimer o demenza a far fronte alla propria condizione.

Lo sostiene di una ricerca della Caledonian University (Glasgow, Scozia) diretta dalla professoressa Debbie Tolson.

Il team della professoressa Tolson è stato ispirato dall'esperienza di George Jaconelli, curatore di incontri settimanali per soggetti colpiti dai disturbi in questione.

Jaconelli ha infatti notato come parlare di eventi sportivi del passato (in particolare, le grandi partite di calcio) aiutasse i malati di demenza o Alzheimer. In base ai suoi resoconti, Persone che prima faticavano a esprimersi e che spesso tutto quello che riuscivano a dire era ciò che desideravano per cena o che andavano a dormire, sono tornati a prendere maggior possesso della capacità di conversare proprio dopo aver condiviso i propri ricordi sportivi con altri pazienti.

Allora, i ricercatori hanno voluto verificare tale beneficio.

Così la Tolson descrive i risultati: "Ciò che abbiamo scoperto è che una reminiscenza di partite di calcio è piacevole e sembra avere molti benefici. La mancanza di stimoli sociali è nociva per le persone con demenza. Esagera l'impatto della condizione. Esso può portare alla depressione e incoraggia le persone a ripiegarsi su se stesse".

La scienziata sottolinea come l'effetto benefico delle chiacchierate sullo sport abbia un effetto limitato, al massimo qualche giorno. Inoltre, tale pratica non può essere considerata una cura per la demenza.

Specificato questo, "Abbiamo scoperto che questo ha incoraggiato la gente a conversare, e sembrava a compensare in parte il tono basso dell'umore, e certamente ha aiutato le persone ad affrontare alcuni dei sentimenti di frustrazione", conclude la ricercatrice.

Fonte: Lindsay Moss, "Football replays used to tackle Alzheimer's" ,The Scotsman, 18/03/010

 
16/03/2010
Alzheimer, Diagnosi Precoce Grazie Al Test ''Preciso'' Al 96%
(ASCA) - Roma, 15 mar - Alzheimer: studiosi americani hanno realizzato un test in grado di diagnosticare precocemente l'insorgere della patologia con una precisione del 96%, secondo quanto emerge da uno studio che sara' pubblicato in aprile su Journal of Alzheimer's Disease dai ricercatori della University of Tennessee, di Knoxville negli Usa. Gli studiosi hanno messo a punto un test diagnostico, chiamato CST (Computerized Self Test), in grado di individuare precocemente la presenza del morbo di Alzheimer e di altre forme di deterioramento cognitivo. Nel corso della ricerca, gli esperti hanno constatato che la precisione del CST nel diagnosticare tali disturbi raggiunge il 96%, motivo per il quale risulta piu' efficace degli altri test attualmente in uso - che sono risultati precisi soltanto al 71% e al 69%. ''La diagnosi precoce rappresenta uno dei fronti piu' importanti per la ricerca sull'Alzheimer - spiega Rex Cannon, ricercatore della University of Tennessee -. L'applicazione di strumenti come il CST risulta pertanto di estrema importanza nel settore delle cure primarie''.
 
15/03/2010
DUE 65ENNI FARANNO 15 MILA KM IN BICI PER TROVARE FONDI

 

(AGI) – Macerata, 11 mar.- Percorreranno ben 15 mila chilometri in tandem, per raccogliere fondi da destinare alla cura contro l’Alzheimer. Sono due 65enni di Macerata, Aldo Angeletti e Cosimo D’Ettorre, che il 15 marzo partiranno in un “viaggio per la vita” della durata di sette mesi, che attraversera’ Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Germania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria e Slovenia. I due vogliono sensibilizzare tutti i cittadini europei, ma anche i loro governanti, sulla ricerca sul morbo di Alzheimer, e nel lungo cammino raccoglieranno contributi in favore dell’associazione onlus milanese “Cuore fratello” che opera con bambini che non possono essere curati nei paesi d’origine. Angeletti e D’Ettore, non nuovi a imprese del genere, hanno ottenuto il patrocinio all’assessorato ai Servizi sociali del Comune di Macerata, e partiranno il 15 marzo da Monte Sant’Angelo (Foggia) con un particolare veicolo, formato da un tandem, un carretto e un cartello esposto in varie lingue che vuole informare sui rischi derivanti dalla terribile malattia. Tra le tappe del “viaggio per la vita”, oltre Macerata, dove saranno il 21 marzo, sono previste Roma (Citta’ del Vaticano), Lourdes e Fatima. (AGI) Cli/An/Eli

 
11/03/2010
E se Google combattesse l'Alzeimer

Fare ricerche in rete allena il cervello e aiuta a prevenire il rischio Alzheimer. Lo rivela uno studio pubblicato su The Journal of Geriatric Psychiatry. A beneficiarne maggiormente sarebbero gli[...]

Fare ricerche in rete allena il cervello e aiuta a prevenire il rischio Alzheimer. Lo rivela uno studio pubblicato su The Journal of Geriatric Psychiatry. A beneficiarne maggiormente sarebbero gli anziani. L’utilizzo dei motori di ricerca sarebbe un’attivita’ in grado di attivare le aree che controllano le decisioni complesse in maniera ben piu’ incisiva di quanto possa stimolare la lettura di un libro. In pratica, il cervello verrebbe sottoposto ad un “allenamento” profondo ogni qualvolta si pongono dei quesiti e si ricevono delle risposte utilizzando i search engine. I risultati si basano sull’indagine eseguita da una squadra di ricercatori dell’universita’ californiana Ucla su 24 persone con un’eta’ compresa fra i 55 e i 76 anni. Due sono gli esperimenti ai quali sono stati sottoposti: nel primo erano invitati a leggere un libro, nel secondo dovevano, appunto, fare delle ricerche su internet. Durante entrambe le attivita’, i cervelli sono stati monitorati tramite la risonanza magnetica. Il risultato? Sia leggendo, sia navigando vengono stimolate le medesime regioni cerebrali, cioe’ quelle responsabili del controllo del linguaggio, della memoria e della visione, ma l’uso dei motori di ricerca riesce ad attivare anche quelle aree che sovrintendono alle decisioni complesse. E questo e’, secondo gli studiosi, il segno che in questo caso l’attenzione e’ piu’ sollecitata. Naturalmente, da qui a dire che Google possa aiutare a combattere l’Alzheimer sembra, per ora, impossibile…

fonte

 
08/03/2010
Alzheimer, l’antidoto è uno scopo nella vita

Secondo uno studio americano, la malattia è meno diffusa tra chi ha un atteggiamento positivo verso il futuro

Le persone che hanno uno scopo nella vita e un atteggiamento positivo verso il futuro hanno meno probabilità di sviluppare la malattia dell’Alzheimer e il suo precursore, il deficit cognitivo lieve. E’ quanto emerge da una ricerca realizzata al Rush University Medical Center di Chicago e pubblicata sulla rivista Archives of General Psychiatry. Secondo i risultati dello studio, condotto su 951 anziani ospitati presso strutture dedicate a Chicago e dintorni, la tendenza ad avere scopi e progetti aumenta di circa 2,4 volte le probabilità di non ammalarsi di Alzheimer. Allo stesso modo, è stato osservato che simili atteggiamenti hanno effetti positivi nel rallentare i normali processi di declino delle funzioni cognitive.

“L’Alzheimer è una delle conseguenze più temute dell’invecchiamento”, ha spiegato Patricia A. Boyle, autrice dello studio insieme ad altri ricercatori del Rush University Medical Center. “L’identificazione di fattori modificabili associati al rischio di questa malattia rappresenta una priorità per la sanità pubblica del ventunesimo secolo, soprattutto se si considera il rapido e diffuso invecchiamento della popolazione”, ha continuato la ricercatrice.

I ricercatori hanno messo in relazione il grado di progettualità degli anziani con le probabilità di sviluppare l’Alzheimer. “Con la dicitura purpose in life (letteralmente “scopo nella vita”) ci si riferisce alla tendenza a trovare un significato nelle esperienze e a possedere un senso di intenzionalità e direzione che guidi il comportamento”, hanno spiegato gli autori. Per misurare questa variabile sono state sottoposte ai partecipanti, nell’ambito del Rush Memory and Aging Project, dieci affermazioni del tipo: “Mi sento bene quando penso a quello che ho fatto in passato e a ciò che spero di fare in futuro”, “Ho un senso della direzione e degli scopi nella vita”, o ancora “Mi piace fare piani per il futuro e lavorare per trasformarli in realtà”. A tutti quindi stato chiesto di esprimere quanto concordavano con ogni frase in una scala da uno a cinque.

Successivamente i partecipanti allo studio sono stati seguiti per diversi anni. Dei 951 anziani coinvolti nello studio, dopo sette anni 155 erano malati di Alzheimer e tra questi la maggior parte aveva riportato un basso punteggio nel test sulla progettualità. La stessa correlazione è stata riscontrata nei pazienti che avevano sviluppato un deficit cognitivo lieve.

Secondo gli autori, la scoperta avrebbe implicazioni importanti per la salute pubblica. “Questi risultati possono aprire nuovi orizzonti di intervento per favorire la salute e il benessere tra le persone anziane”, ha commentato Boyle. “Avere uno scopo nella vita, infatti, è un fattore potenzialmente modificabile: gli anziani possono essere aiutati a identificare attività significative e a impegnarsi in comportamenti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi”. (g.b.)

Riferimenti: Archives of General Psychiatry

 
07/03/2010
scoperta nei topi malattia sosia Alzheimer
Le stesse proteine responsabili della malattia della mucca pazza, i prioni, causano una malattia molto simile al morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile.

La nuova malattia è stata osservata nei topi, ma per i ricercatori dei National Health Institutes (Nih) degli Stati Uniti la scoperta potrebbe portare a nuove terapie per curare l’Alzheimer nell’uomo. La ricerca, pubblicata sulla rivista PLoS Pathogens, è stata coordinata da Bruce Chesebro, dell’Istituto statunitense per le allergie e le malattie infettive (Niaid) che fa capo all’Nih.

Il risultato è stato ottenuto per caso, mentre i ricercatori studiavano il modo in cui le malattie da prioni distruggono il cervello nei topi: anziché la degenerazione tipica delle malattie da prioni che rende il tessuto cerebrale simile a una spugna, i ricercatori hanno visto lesioni analoghe a quelle provocate dalla malattia di Alzheimer, con la formazione di depositi di sostanza amiloide nei vasi sanguigni cerebrali.

La scommessa, adesso è trovare una sostanza capace di inibire la nuova forma di malattia da prioni. Questo significherebbe avere una nuova arma potenzialmente capace di ridurre i danni provocati dall’Alzheimer.

fonte

 
24/02/2010
Spagna, in Andalusia la legge sulla morte degna e senza dolore

 

Questa norma permetterà che i pazienti con infermità degenerative, in stato vegetativo e in avanzato Alzheimer possano rifiutare l’accanimento terapeutico. Il parlamento andaluso approverà a breve la legge della Morte Degna, la prima in Spagna che impedirà l'obiezione di coscienza ai medici e che amplierà la definizione di malattia terminale e di agonia. Il testo parlerà specificamente di persone con infermità gravi irreversibili, come richiesto dall'associazione Diritto a Morire Degnamente (DMD). La legge, specifica il presidente di DMD, permetterà che pazienti con infermità degenerative, in stato vegetativo, finanche i malati di Alzheimer avanzato, possano rifiutare gli accanimenti terapeutici, come l'alimentazione tramite sonda o qualunque supporto vitale. La legge sarà vincolante per tutti i centri medici, inclusi quelli religiosi, senza permettere alcun margine di dubbio. La legge dovrebbe colmare un vuoto per cui, in molti casi, la fase terminale del paziente dipende dal medico. Secondo esponenti del partito dell'Unione Istituzionale "l'approvazione della legge è una stupenda opportunità per dimostrare che la servitù alle gerarchie ecclesiastiche è parte del passato, promulgando una legge che sviluppa il diritto sociale e del cittadino, come contemplato dallo statuto andaluso".

fonte

 
15/02/2010
Farmaco anti-Alzheimer efficace contro la corea di Huntington

 

Latrepirdina, un farmaco sperimentale in fase di sviluppo per la cura della malattia di Alzheimer, è in grado di migliorare le capacità cognitive di pazienti affetti da corea di Huntington rispetto al placebo. Lo dimostra uno studio multicentrico, appena pubblicato su Archives of Neurology, inteso a valutare sicurezza, tollerabilità ed efficacia della molecola.

Il risultato è incoraggiante perché al momento non ci sono trattamenti disponibili per gli effetti psicologici della malattia e gli autori hanno detto di aver scelto questo farmaco proprio perché sembrava avere un impatto sia sulle funzioni cognitive sia sull'invecchiamento.

"La corea di Huntington viene pensata solitamente come un disturbo del movimento, ma i problemi cognitivi e comportamentali della malattia sono altrettanto, se non più importanti di quelli motori" ha ricordato il coordinatore dello studio Karl Kieburtz, dell'Università di Rochester.

Lo studio, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, ha coinvolto 91 soggetti affetti da corea di Huntington moderata-severa, arruolati in 17 centro inglesi e statunitensi tra il luglio 2007 e il luglio 2008. I pazienti sono stati trattati con latrepirdina tre volte al giorno per 90 giorni o placebo.
I risultati hanno dimostrato che i pazienti in terapia attiva, a differenza dei controlli, hanno ottenuto un miglioramento dei punteggi dei test utilizzati per valutare le capacità di pensiero, apprendimento e memorizzazione.

Secondo i ricercatori, latrepirdina sembra stabilizzare e migliorare il funzionamento delle cellule cerebrali danneggiate dalla malattia. E' possibile che la molecola agisca sui mitocondri, gli organelli cellulari produttori di energia, che possiedono un proprio DNA, distinto da quello della cellula ospite.
Il farmaco si è rivelato anche sicuro e ben tollerato, con effetti collaterali minimi, tra cui cefalea e vertigini.

Ora i ricercatori stanno effettuando un altro studio di follow-up su 350 pazienti, della durata di 6 mesi, per vedere si i risultati iniziali saranno confermati.
Latrepirdina è attualmente oggetto di sviluppo per il trattamento della malattia di Alzheimer da parte della biotech californiana Madivation in collaborazione con Pfize. Il farmaco è stato commercializzato per la prima volta in Russia come antistaminico.

Ora le due aziende contano di iniziare presto le sperimentazioni anche su alcuni analoghi del farmaco che potrebbero trovare impiego in una varietà di malattie tra cui Parkinson, ictus e scompenso cardiaco.

Studio pubblicato su Archives of Neurology
http://archneur.ama-assn.org/cgi/content/short/67/2/154?home

 
01/02/2010
A Forlì 60 Anziani colpiti da Alzheimer ai Tavoli Elettrici per migliorare la memoria
Per tenere a bada l’Alzheimer gli anziani si danno ai videogiochi. Mondi lontanissimi, quelli della terza età e dei games elettronici: ma a Forlì si incontrano con l’avvio del progetto “Sociable”, cofinanziato dall’Unione europea, che cerca nuove strade per allenare la memoria a breve – quella più colpita dalla malattia – nelle persone con Alzheimer. Così 60 forlivesi di età media sui 75 anni, seguiti dal Centro esperto per la memoria dell’Unità geriatria dell’Ausl, cominceranno nei prossimi mesi a giocare. Non certo ad “Assassins Creed” o all’ultima novità della Playstation, ma con due tavoli elettronici “touch screen” progettati apposta per attività di gruppo, come ad esempio riconoscere e abbinare colori, oppure associare immagini, elementi e forme geometriche diverse. Tutto per tenere “sveglio” il cervello e contrastare l’invecchiamento mentale e la demenza senile.

Il progetto è europeo, nell’ambito del programma Ue “Ict per invecchiare bene”, e oltre a Forlì coinvolge altre città in Spagna, Grecia e Norvegia: 300 in tutto le persone selezionate. L’attività di gioco non sarà imposta “dall’alto” agli anziani in cura, come spiega il medico Giulio Cirillo, referente scientifico di “Sociable”: “Abbiamo prima sentito le 60 persone coinvolte. Il 75% si è detto disponibile, e anzi entusiasta di partecipare a un programma di stimolazione mentale mediante nuove tecnologie”. Questo anche se le persone intervistate, come era da attendersi, hanno dichiarato scarsa confidenza con l’uso di pc e strumenti informatici, e solo il 15% ha dimestichezza con il cellulare. “In questi giorni – dice Cirillo – un gruppo tecnologico sta discutendo su come progettare al meglio le apparecchiature di gioco. Bisognerà prevedere strumenti semplici, tarando giochi e test su diversi livelli di difficoltà”.

A Forlì dovrebbero arrivare due tavoli “touch screen” fissi per giochi collettivi, uno da destinare all’ospedale e l’altro a un centro sociale del Comune, più altri supporti individuali. “Il gioco di gruppo – osserva Cirillo – favorisce l’interazione tra i pazienti, che è uno dei punti critici segnalati dall’indagine: il 68% degli intervistati ha relazioni solo con i familiari, appena il 15% anche con amici e vicini di casa. Facendoli giocare valuteremo i progressi nella capacità di esecuzione e reazione ai test, ma anche i miglioramenti dal punto di vista della socialità”. Il progetto “Sociable” vede coinvolti Comune, Ausl di Forlì e l’azienda Cedaf.

FONTE:

SuperAbile.it

 
08/01/2010
Un cocktail di nutrienti per combattere l'Alzheimer

edizione italiana di "Scientific American"

Nel modello animale, la miscela ha dimostrato di poter favorire l'incremento del numero di spine dendritiche, che formano una sinapsi quando contattano un altro neurone
Negli stadi precoci della malattia di Alzheimer, i pazienti tipicamente subiscono una consistente perdita delle connessioni neuronali necessarie per la memoria e l’elaborazione delle informazioni.

Ora una combinazione di nutrienti sviluppata dal MIT ha mostrato la potenzialità di migliorare la memoria nei pazienti affetti dalla patologia, grazie alla stimolazione della crescita di nuove sinapsi.

"Se si riuscisse effettivamente a incrementare il numero di sinapsi aumentandone la produzione, si potrebbe evitare in qualche misura la perdita di capacità cognitive”, ha spiegato Richard Wurtman, neuroscienziato del MIT che firma un articolo di resoconto sulla ricerca sull’ultimo numero della rivista Alzheimer's and Dementia.

Com’è noto, attualmente non esiste alcuna cura per l’Alzheimer, sebbene alcuni farmaci, come gli inibitori della colinesterasi, che aumentano i livelli di acetilcolina – un neurotrasmettitore importante per l’apprendimento e la memoria – possano rallentarne la progressione.

L’idea di partenza di è stata invece quella di aggredire la causa primaria della malattia, le sinapsi. I ricercatori hanno così elaborato un cocktail dietetico di tre sostanze: uridina, colina e DHA, tutte presenti nel latte materno, insieme con vitamina B, fosfolipidi e antiossidanti.

Nello studio sul modello animale, infatti, Wurtman ha mostrato che questi nutrienti incrementano il numero di spine dendritiche, che formano una sinapsi quando contattano un altro neurone.

Nello studio clinico successivo, effettuato su 225 pazienti con una forma lieve di Alzheimer, è stato fato loro assumere il cocktail o un placebo per 12 settimane. Rispetto al controllo, i soggetti trattati hanno dimostrato un significativo miglioramento nei test di memoria verbale basati sulla Wechsler Memory Scale, con risultati migliori nei casi meno gravi della patologia.

 

06/01/2010
Uso Cellulari Previene e Fa Regredire Malattia

WASHINGTON - Le onde elettromagnetiche dei telefonini non solo non fanno male ma proteggono dall'Alzheimer e possono far regredire la malattia. I ricercatori della University of South Florida hanno esposto 96 topi (molti geneticamente modificati per sviluppare l'Alzheimer) alle onde dei cellulari per un'ora, 2 volte al giorno, per 7/9 mesi. Nei topi malati l'esposizione ha fatto sparire i depositi nel cervello di beta-amiloide, la proteina killer dei neuroni, e ha fatto scomparire i sintomi della demenza. In quelli sani la memoria è stata addirittura potenziata

Corriere della sera

MILANO - Il telefonino protegge dall'Alzheimer? Secondo uno studio americano pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease, le onde elettromagnetiche generate dai cellulari potrebbero avere, alla lunga, un effetto «scudo» contro la demenza senile. Va detto che la ricerca degli scienziati del Florida Alzheimer's Disease Research Centre è stata condotta sui topi, quindi da prendere con le dovute cautele. Gli autori, infatti, invitano alla prudenza: serviranno sicuramente molte verifiche per accertare, con ulteriori ricerche, gli eventuali benefici delle radiazioni emesse dai cellulari, più volte, invece, sospettati di possibili danni alla salute.

LO STUDIO - Nello studio sono stati utilizzati 96 topi, la maggior parte dei quali geneticamente modificati in modo da sviluppare nel cervello, invecchiando, le placche beta-amiloidi caratteristiche dell'Alzheimer. Tutti gli animali, sia quelli «malati» sia quelli normali, che servivano come gruppo di confronto, sono stati esposti a un campo elettromagnetico prodotto da un comune telefono cellulare: due «sedute» da un'ora al giorno, per 7-9 mesi. Tutte le gabbiette in cui si trovavano le cavie sono state sistemate alla stessa distanza dalla fonte di radiazioni. Il team guidato da Gary Arendash ha osservato che, se l'esposizione alle onde iniziava quando i topi «malati di Alzheimer erano ancora dei giovani adulti, quindi prima che mostrassero segni di perdita di memoria, le capacità cognitive dei roditori risultavano protette. Se invece l'esposizione alle radiazioni del telefonino riguardava topi anziani, con problemi di memoria già evidenti, i loro deficit mnemonici scomparivano. Buone notizie anche dall'esame delle autopsie eseguite sui roditori post-mortem: gli animali «trattati» con onde elettromagnetiche non presentavano anomalie nè al cervello nè agli organi periferici.

SORPRESA - Il più sorpreso dai risultati dello studio è stato proprio l'autore della ricerca, il professore Gary Arendash: «Francamente ho iniziato questo lavoro alcuni anni fa convinto che i campi elettromagnetici dei cellulari potessero peggiorare l'Alzheimer» mentre invece è successo il contrario «e abbiamo verificato effetti benefici sia sui topi affetti da Alzheimer che su quelli sani».

MODELLO SPERIMENTALE - «Per valutare correttamente questo studio bisogna innanzitutto considerare il tipo di modello sperimentale utilizzato» commenta il professor Giancarlo Comi, direttore dell'Istituto di neurologia dell'Università Vita e Salute-san Raffaele, di Milano, e presidente eletto della Società Italiana di Neurologia. «Da quanto risulta al momento sembrerebbe che i topi "malati di Alzheimer" fossero in realtà "solo" topi in cui è stata indotta la formazione di placche beta-amiloidi, che sono certamente un fattore molto importante nel condizionare i disturbi dell'Alzheimer, ma non sono l'unico implicato nella malattia». «Il fatto che distruggendo le placche beta-amiloidi si consegua una riduzione del deficit di memoria è un risultato atteso e ben noto, infatti è stato ottenuto già con altri metodi da parecchio tempo. L'elemento di notevole novità che sembra portare lo studio americano appare in effetti il modo in cui si è arrivati a questo risultato, cioè con campi elettromagnetici a bassa frequenza. Da qui a dire che il telefonino può essere uno scudo per l'Alzheimer c'è però una notevole differenza, anche perchè bisognerebbe valutare con attenzione il tipo di dose usata, la distanza, il tempo e poi fare le dovute proporzioni con l'uomo» «Ora si dovrebbe stabilire con uno studio epidemiologico ad hoc se in chi usa da tempo questi apparecchi telefonici mobili ci sia un effettiva riduzione di incidenza della demenza senile. Fino ad allora bisogna usare molta prudenza, anche perchè i telefonino sono spesso stati associati anche a potenziali effetti nocivi se utilizzati in modo protratto».

 
09/05/2009
Cavie digitali per i farmaci contro
Alzheimer e morbo di Parkinson

 

MADRID – Il procedimento si ispira a quello dei simulatori di volo: un cervello digitale manifesta i sintomi di alcune patologie gravi, come l’Alzheimer o il Morbo di Parkinson, e i ricercatori gli «somministrano» i medicinali di nuova creazione studiandone gli effetti sul monitor. La possibilità, affascinante soprattutto per le cavie in carne e ossa, attualmente in servizio nei laboratori farmaceutici, non è poi così aleatoria, se continueranno a progredire il lavoro dell’équipe internazionale intorno a «Blue Brain», il primo e più avanzato studio per la ricostruzione artificiale della struttura cerebrale di un mammifero e delle sue reazioni. «Ci permetterà di condurre centinaia di migliaia di esperimenti senza mettere a repentaglio i malati» si entusiasma il coordinatore, lo spagnolo José Maria Peña, docente alla facoltà di informatica dell’Università Politecnica di Madrid. Intervistato dal quotidiano Abc, il cattedratico è convinto che il progetto apra la strada a una sperimentazione totalmente innovativa e dalle potenzialità quasi sconfinate: sarà possibile provare «tutti gli scenari clinici» e nuove strade per la cura di malattie neurodegenerative, tumori, schizofrenia, autismo.

UN PROGETTO PARTITO NEL 2005 - L’impresa è a buon punto, ma ancora abbastanza lontana dalla meta. Attualmente è stata ricostruita una piccola parte del cervello con risultati ritenuti «soddisfacenti» e l’intera neocorteccia cerebrale dovrebbe essere pronta entro il 2010. Il progetto «Blue Brain» risale al 2005, per iniziativa della Scuola Politecnica di Losanna e dell’Ibm La «cavia digitale», secondo i suoi creatori, si trasformerà in uno strumento informatico indispensabile alla ricerca medica e fornirà risposte anche a molti dei grandi enigmi dei neuro-scienziati sul funzionamento del cervello umano, sulle sue differenze o similitudini con quello di altri mammiferi. Si presenta, su scala mondiale, come il primo tentativo di «ingegneria inversa» (che ricava informazioni partendo da un prodotto finito e smontandone i componenti) applicata al cervello dei mammiferi.

corriere della sera


 
09/05/2009
«interruttore» chiave per la memoria

MILANO - Topolini malati di Alzheimer sono stati curati grazie alla scoperta di un enzima che funzionerebbe come «interruttore» dei ricordi: i sintomi della demenza sono regrediti nei topolini trattati con medicine sperimentali che disattivano questa proteina.
L'enzima in questione si chiama HDAC2, ha spiegato Li-Huei Tsai del Massachusetts Institute of Technology di Boston, e presiede all'attività (espressione) di alcuni geni legati alla plasticità cerebrale. Se l'enzima viene «spento» i geni «lavorano» di più e creano le condizioni per la formazione di nuovi fra le cellule nervose indispensabili per apprendimento e memoria. E infatti nella sperimentazione condotta dagli scienziati del Mit i sintomi dell'Alzheimer nei topolini trattati con questi farmaci sono regrediti e la loro memoria è risultata potenziata., come spiegato sulla rivista Nature.

PROSPETTIVE - Poichè molti farmaci inibitori degli enzimi HDAC sono già in uso come farmaci contro i tumori e poiché altri farmaci di questo tipo sono in via di sperimentazione per altre malattie anche del cervello, essi si potrebbero rivelare utili anche per l'Alzheimer in tempi relativamente brevi.

corriere della sera

 

 
12/03/2009
Una proteina blocca l'Alzheimer
La scoperta in una ricerca a Milano


La risposta alla malattia potrebbe nascondersi nella sostanza stessa che lo scatena: la beta-proteina, che aggregandosi forma depositi impossibili da smaltire (placche amiloidi), killer dei neuroni. Questi i risultati di una ricerca che ha visto la collaborazione di diversi istituti meneghini
Milano, 12 marzo 2009 - La risposta all’Alzheimer potrebbe nascondersi nella sostanza stessa che lo scatena: la beta-proteina, che aggregandosi forma depositi impossibili da smaltire (placche amiloidi), killer dei neuroni. Una sua forma mutata, identificata grazie a uno studio "made in Milano" che si è guadagnato i riflettori di "Science", può infatti rappresentare uno scudo contro la malattia.

Da trasformare in futuro in un farmaco per bloccare sul nascere l’Alzheimer in tutte le sue forme, compresa quella familiare che attacca il cervello anche da giovani. Già a 40 anni o perfino a 30.

La speranza di uno "scacco matto" al morbo che colpisce oggi circa mezzo milione di italiani, 6 milioni di europei e 5 milioni di americani - numeri destinati a raddoppiare entro il 2050 per l’invecchiamento inesorabile della popolazione - arriva da una ricerca guidata dagli scienziati della Fondazione Istituto neurologico Carlo Besta e dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano, con la collaborazione di colleghi dell’università degli Studi meneghina, del Centro Sant’Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio e del Nathan Kline Institute di Orangeburg (New York, Usa).

Un "colpo di intuito", spiega il direttore del Dipartimento di malattie neurodegenerative del Besta, Fabrizio Tagliavini, che ha spinto gli studiosi ad approfondire lo strano caso di un 36enne colpito da Alzheimer precoce e aggressivo senza avere apparentemente alcuna familiarità per la patologia.

Il team milanese ha così scoperto una nuova variante di beta-proteina mutata, che se è presente in doppia copia (codificata da entrambi gli alleli del gene corrispondente, condizione detta in gergo tecnico omozigosi) scatena l’Alzheimer in forma grave, rivelandosi invece protettiva se presente in singola copia (eterozigosi).

In questo caso, precisa Tagliavini, "la beta-proteina mutata si lega a quella normale e blocca la formazione di amiloide e lo sviluppo della malattia. Un comportamento biologico sorprendente", che "apre una nuova prospettiva terapeutica" sia per le forme genetiche (3%) che per quelle sporadiche (non familiari, 97%) di Alzheimer.

Una speranza di cura "basata sull’uso di frammenti proteici contenenti questa mutazione o di composti peptido-mimetici", puntualizza Mario Salmona, direttore del Dipartimento di biochimica molecolare e farmacologia dell’Istituto Mario Negri. Medicinali efficaci "senza effetti collaterali", sottolinea Tagliavini.

"Galeotte" le indagini su un paziente 36enne e la sua famiglia. "Tutto è partito dal caso di un paziente di 36 anni, con una forma di demenza molto aggressiva pur senza presentare in apparenza alcuna familiarità per la malattia di Alzheimer", racconta Tagliavini. "Nonostante questo, abbiamo deciso di eseguire delle indagini genetiche - continua - e abbiamo scoperto la nuova mutazione presente in omozigosi".

Non solo. "Riproducendo in laboratorio la nuova beta-proteina individuata, abbiamo visto che si trattava di una mutazione molto aggressiva - aggiunge lo scienziato - e allora ci siamo chiesti perchè non si fossero ammalati anche quei parenti del nostro giovane paziente che presentavano la mutazione in eterozigosi". Infatti, ricorda Tagliavini, "per tutte le mutazioni note prima d’ora bastava che l’alterazione fosse presente su un singolo allele del gene per scatenare l’Alzheimer in forma grave".

Ebbene, passando in rassegna tutti i componenti della famiglia dell’under 40 malato - sulla quale gli studiosi mantengono il più stretto riserbo per ragioni di privacy - il team milanese ha scoperto "molti membri eterozigoti, eppure perfettamente sani". Compresa un’anziana signora arrivata alle soglie dei 90 anni «con una memoria di ferro», che per ironia della sorte assisteva un marito malato di Alzheimer.

Alla luce di questa osservazione, "un caso praticamente unico in letteratura", Tagliavini e colleghi hanno quindi provato a "mettere insieme in provetta la beta-proteina normale e quella mutata", notando che "l’interazione blocca la "cascata amiloide" chiave nella malattia". In altre parole, la beta-proteina mutata impedisce a quella normale di cambiare forma e di aggregarsi formando la placca amiloide.

La marcia dell’Alzheimer viene insomma arrestata, e la speranza degli esperti è quella di tradurre la loro scoperta in medicinali da somministrare un giorno ai pazienti ad alto rischio di Alzheimer.

http://ilgiorno.ilsole24ore.com/milano/2009/03/12/157645-proteina_blocca_alzheimer.shtml

 
09/03/2009
Alla base dell'Alzheimer amiloide e prioni

La degenerazione dei neuroni causata dall'Alzheimer potrebbe dipendere dal legame tra proteina amiloide e forme mutate di proteine prioniche Placche nel cervello per Alzheimer

Su Nature Stephen Strittmatter della Yale University School of Medicine di New Haven spiega che solo l'interazione tra proteine prioniche e frammenti di beta amiloide, le proteine che si accumulano nel cervello di chi è colpito dalla malattia, produrrebbe un danno neuronale.
Le cause della malattia non sono chiarite ma è noto che nel cervello si accumulano frammenti di proteina beta-amiloide che causano la morte dei neuroni, provocando nei pazienti deficit di memoria sempre più gravi, oltre ad un peggioramento graduale del ragionamento, del linguaggio, fino ad arrivare ad una compromissione dell'autonomia funzionale e della capacità di svolgere le normali attività quotidiane.
Il professor Strittmatter chiarisce che "Sapevamo che la beta-amiloide è dannosa per il cervello, ma non in che modo ciò accadesse".
Ora professore e colleghi ritengono di aver compreso il meccanismo con cui si attiva la degenerazione dei neuroni: i frammenti di beta-amiloide si legano a proteine prioniche, che sono normalmente innocue ed esistono in diverse cellule, ma in alcuni rari casi mutano, causando malattie come il morbo della mucca pazza o la malattia di Creutzfeldt-Jacob.

Quando i peptidi beta-amiloide si legano alle proteine prioniche cellulari si manifestano i danni alle cellule nel cervello.
Il professor Fabrizio Tagliavini, direttore del dipartimento di malattie neuro degenerative dell'Istituto Carlo Besta di Milano, esperto della malattia commenta "E' una scoperta interessante" e prosegue "Negli ultimi anni si è scoperto che il danno nell'Alzheimer è dovuto non tanto alla forma finale degli amiloidi - le aggregazioni proteiche considerate le principali responsabili della patologia - ma alle forme iniziali di aggregazione, più piccole, chiamate oligomeri. Queste formazioni tossiche danneggiano le cellule nervose in modo grave, alterano le sinapsi e processi di base della memoria" e conclude Questo lavoro ora indica che la proteina prionica cellulare funziona da recettore per questi oligomeri, ed è un punto centrale del processo di neuro tossicità. E suggerisce così un nuovo target per potenziali terapie"
L'Alzheimer è la forma più diffusa di demenza senile e, come spiega Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, "Rappresenta una delle maggiori sfide sanitarie e sociali del nostro tempo e oggi i malati sono 24 milioni in tutto il mondo, 500mila in Italia, e nei prossimi vent'anni si stima che raddoppieranno". La Federazione Alzheimer Italia è la maggiore organizzazione nazionale no profit dedicata alla promozione della ricerca medica e scientifica sulle cause e la cura della malattia, al supporto e sostegno dei malati e dei loro familiari e alla tutela dei loro diritti.
Redazione MolecularLab.it (09/03/2009)

 
12 gennaio 2009
le ultime scoperte dei ricercatori su Alzheimer e tumore al seno
L’Alzheimer colpisce più le donne degli uomini e la colpa starebbe nel corredo genetico femminile. Secondo uno studio del Mayo Clinic College di medicina, pubblicato sulla rivista Nature genetics, a esporre le donne a un rischio maggiore di sviluppare questa malattia sarebbe la variante chiave di un gene presente nel cromosoma X, presente in doppia coppia nel sesso femminile e in una sola in quello maschile. I ricercatori hanno identificato infatti una particolare variante del gene PCDH11X, che sembra essere collegata a un alto rischio di ammalarsi di questa patologia.
Gli studiosi hanno rilevato che l’aumento del rischio non era statisticamente rilevante negli uomini che presentavano una copia sola della variante genetica in questione, così’ come nelle donne che ne avevano una sola copia. Le cose cambiano invece, e di conseguenza il rischio sale, nelle donne con due copie del gene, ognuna delle quali ereditata da ciascun genitore.
Il PCDH11X controlla la produzione di una proteina, la protocaderina, che fa parte di una famiglia di molecole che aiuta le cellule del sistema nervoso centrale a comunicare tra loro. Secondo alcuni studi la protocaderina può essere spezzata da un enzima collegato ad alcune forme di Alzheimer. “E’ molto interessante aver scoperto un nuovo gene collegato alla malattia, il primo ad avere un effetto specifico sul sesso - spiega Steven Youkin, coordinatore dello studio - E’ probabile che molti geni contribuiscano al rischio di sviluppare questa patologia, anche se l’età resta il fattore più significativo”.

Nuove scoperte sono state fatte anche per quel che riguarda il rischio di sviluppare il cancro al seno. In questo caso non di genetica si tratta ma di zuccheri. Un alto livello di insulina (ormone prodotto dal pancreas quando il livello di glucosio nel sangue è alto) nelle donne in menopausa sarebbe infatti responsabile di un aumentato rischio di sviluppare il cancro al seno. E’ quanto emerso da una ricerca dell’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University pubblicata sul Journal of National Cancer Institute. I ricercatori hanno selezionato nel 2004 un gruppo di oltre 1600 donne in menopausa. Il gruppo individuato era composto da 835 donne che avevano sviluppato il cancro al seno nel corso della ricerca e da 816 donne scelte casualmente. I ricercatori hanno valutato il loro livello di insulina, i livelli di estradiolo e l’indice di massa corporea. Successivamente, le donne sono state divise in quattro sottogruppi, in base al livello di insulina riscontrato ed è emerso che quelle con i più alti livelli di insulina avevano quasi il 50 per cento di probabilità in più di sviluppare il cancro al seno. Il maggior numero di questi casi è stato osservato nel sottogruppo che non aveva mai utilizzato la terapia ormonale sostitutiva. “Quando abbiamo effettuato i controlli per l’insulina - ha detto il professor Marc Gunter, autore dello studio - l’associazione tra obesità e cancro al seno è diventata molto più debole, ciò significa che una larga parte della relazione obesità e cancro potrebbe essere mediata dai livelli di insulina”.

http://blog.panorama.it/hitechescienza/2009/01/12/salute-rosa-le-ultime-scoperte-dei-ricercatori-su-alzheimer-e-tumore-al-seno/

 
3 novembre 2008 - studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry
Gli inglesi la chiamano alcohol-related dementia, ovvero la demenza collegata al consumo di alcolici che, se assunti in grande quantità, contribuiscono sensibilmente a diminuire la massa cerebrale. LO STUDIO - Una ricerca pubblicata sul British Journal of Psychiatry e guidata dai due ricercatori Susham Gupta e James Warner sottolinea ancora una volta il legame esistente tra alcool e demenza, diffondendo numeri inquietanti a questo proposito. Nell’Alzheimer, considerata la forma più comune di demenza, l’alcool in quantità significativa è responsabile di un decimo dei casi, e se il consumo è stato pesante la responsabilità del bicchiere di troppo sale a un caso su quattro. Le lesioni alle cellule e alle sinapsi provocate dagli alcolici sono note da tempo, ma il rapporto direttamente proporzionale tra il vizio del bere e la degenerazione cerebrale è ulteriormente sottolineato dai dati di quest’ultima ricerca britannica. DEMENZA DIFFUSA – Del resto le statistiche relative alla demenza e all’etilismo, quantomeno in Gran Bretagna, vanno a braccetto. Gli inglesi bevono sempre di più secondo i dati e dal 1960 hanno raddoppiato il numero di bottiglie pro capite all’anno, come fanno notare Gupta e Warner, secondo i quali al fenomeno ha contribuito anche la discesa dei prezzi nel settore. Allo stesso modo aumenta la demenza, classificata ormai dai medici come una vera e propria epidemia. Susanne Sorensen, che dirige il settore ricerca dell’Alzheimer's Society, sostiene che tra le persone che muoiono oltre i 65 anni un terzo soffre di una forma di demenza senile.

Corriere della Sera
 
29 ottobre 2008 - Scoperta nuova molecola anti-Aids

ROMA - Nuove speranze per combattere il virus dell'HIV, responsabile dell'AIDS, arrivano da una piccola molecola scoperta da ricercatori del Laboratorio di Virologia Molecolare diretto da Giovanni Maga presso l'Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pavia (Igm-Cnr), in collaborazione con il Laboratorio di Chimica Farmaceutica dell'Università di Siena, diretto dal professor Maurizio Botta. Si tratta di una molecola farmacologicamente attiva, in grado di bloccare l'infezione poiché diretta contro un "enzima cellulare", a differenza della terapia attuale che si basa invece su farmaci diretti contro "enzimi virali": una via, questa, che da qualche anno è stato dimostrato essere la più efficiente contro la malattia.
segue

 
21 ottobre 2008 - Nanoparticelle contro il morbo di Alzheimer

Il progetto NAD prevede l'uso di nanoparticelle per la diagnosi e la terapia della malattia di Alzheimer. Il 1 settembre scorso è partito il Progetto NAD (Nanoparticles for therapy and diagnosis of Alzheimer Disease), un progetto di ricerca multidisciplinare con l'obiettivo di diagnosticare precocemente e contrastare la malattia di Alzheimer. Il professor Massimo Masserini è il responsabile scientifico del progetto, professore ordinario di biochimica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia e direttore del dipartimento di Medicina Sperimentale. segue

 
17 ottobre 2008 - allenamenti anti alzheimer

Roma. Partirà entro sei mesi il progetto italiano e unico al mondo -"train the brain", attività ludiche e fisiche per tenere allenato il cervello dei malati di alzheimer. (fonte: metro)

 
17 ottobre 2008 - SOCIAL CARD

Sembra che la social card verrà distribuita, non si sa come, alle persone che abbiano superato i 65 anni di età e che abbiano un reddito inferiore ai 6000 euro. Sembra che sia una carta ricaricabile che nell’arco di un anno venga ricaricata di 480 euro, spendibili in pagamento bollette luce e gas o spendibile nei negozi che saranno convenzionati. In ultimo sembra che la social card possa essere richiesta anche dalle famiglie sempre con reddito inferiore ai 6000 euro e con un bimbo al di sotto dei 3 anni. A chi si debba presentare autocertificazione attestante questo reddito non è ancora chiaro.

 
13 ottobre 2008 - scambio tra i ricercatori

Durante la riunione del Consiglio Competitività a Bruxelles il 25 e 26 settembre, i ministri europei della ricerca hanno adottato delle conclusioni sul morbo di Alzheimer, sul partenariato europeo per i ricercatori e sulla ricerca responsabile nel campo delle nanotecnologie.

Alle malattie neurodegenerative, e in particolare al morbo di Alzheimer, è stata data alta priorità sotto la presidenza francese dell'UE. Durante la riunione del consiglio, i ministri hanno firmato un impegno di combattere queste malattie che sono destinate a diventare sempre più diffuse con l'invecchiamento della popolazione.

Nelle conclusioni, i ministri hanno raccomandato il lancio di un'iniziativa europea per riunire tutte le parti interessate, compresi gli Stati membri e la Commissione, allo scopo di aumentare il numero dei ricercatori che lavorano sull'Alzheimer e formare più specialisti, in modo da ridurre l'impatto delle malattie neurodegenerative.

I ministri indicano che questa iniziativa potrebbe essere "un buon esempio per testare modi innovativi per mettere insieme esperienze e risorse nazionali su base volontaria come parte degli obbiettivi congiunti dell'Europa". Pensando a questo, il Consiglio invita gli Stati membri a creare un forum che riunisca i protagonisti della ricerca europea sull'Alzheimer e a valutare modi per favorire la collaborazione tra gli Stati membri, ad esempio utilizzando progetti nell'ambito del Settimo programma quadro (7°PQ).

 

13 settembre 2008 - Scoperta cura per l’Alzheimer

Un annuncio importante, quello del premio Nobel Rita Levi Montalcini, che al Corriere della Sera ha parlato della nascita in laboratorio di una molecola capace di sconfiggere il morbo di Alzheimer. Già in precedenza, la Montalcini aveva individuato la causa delle malattie di tipo degenerativo proprio nella carenza di una molecola, la NGF. Ora, la notizia che ridà speranza a molti ammalati e alle loro famiglie, è che questa molecola può essere riprodotta artificialmente, ingegnerizzata e ottimizzata al fine di adoperarla come terapia contro l’Alzheimer. Questo metodo potrebbe risultare efficace nel sopperire al deficit di NGF, alla base della diffusa malattia neurologica. - in Medicina News, Nuove frontiere mediche.




 

© alzalamente 2008 - 2010