Sensi
Il privo di vista, non riconosce il colore della pelle.
Il sordo, non afferra il suono della melodia.
Il privo di voce, non recita l'incanto del pensiero.
Il monco, non sfiora l'identità del contatto.
Il privo di olfatto, non fiuta il ricordo dell'immagine.
Lo stolto, non coglie l'emotività dell'esistere.
Il saggio, esalta l'onnipotenza delle proprie idee.
L'umile passeggia e sorride in silenzio,
sapiente del tutto.
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Il privo di vista, non riconosce il colore della pelle.
Il sordo, non afferra il suono della melodia.
Il privo di voce, non recita l'incanto del pensiero.
Il monco, non sfiora l'identità del contatto.
Il privo di olfatto, non fiuta il ricordo dell'immagine.
Lo stolto, non coglie l'emotività dell'esistere.
Il saggio, esalta l'onnipotenza delle proprie idee.
L'umile passeggia e sorride in silenzio,
sapiente del tutto.
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Non so riconoscere
É tramonto.
Non faccio differenza tra luce o buio, giorno e notte. Ma esisto sempre, e mai esito.
Se più mi affaccio, il giorno ha più ore, e la notte pure.
Il tempo, quel tempo scoperto, poi stabilito, mai l'ho notato. Eppure c'è, e ne viene narrato passato, presente, futuro, ma anche idea, invenzione, fantasia, sogno. Ne vengono tratte sorti, maledizioni, superstizioni, credo, ed ogni ipotesi che accompagna la vita e la morte, soddisfando ogni convenienza.
La mia indole è noncurante, ma mi addentro in ogni dettaglio non cogliendone il significato, sensibile ad ogni differenza.
Tutto è così uguale, ciclico, ma tanto diverso. E così tra i solchi delle cortecce di ogni albero, e negli sguardi umidi di ogni umano, come tra i fili d'erba che sono ovunque, e tra le pieghe della pelle di mani laboriose, ed i muri scrostati dalla storia, fino ai movimenti sinuosi di due amanti, tutto così simile, ripetuto, ripetitivo, ma così differente, unico, emozionante.
Ma non me ne accorgo, e proseguo lungo la mia strada eterna.
Penetro tra voci che già parlano, a volte gridano, non so se di gioia o di dolore, non ne conosco la differenza. Come tra quei vagoni spigolosi di un treno, non so in quale quando, tutti uniti, accartocciati l'un l'altro, gli sguardi fissi, chissà con che emozione. E urlano, molti senza voce, ma poi gli stessi li ritrovo muti, nudi credo, uno sopra l'altro, orrizzontali, in massa. Qualcuno più su, in posa verticale, mi pare ride. Ed altre folle gridanti ancora, come sciami allo stesso suono, allo stesso gesto, con egual colori.
Non so la differenza tra quei corpi in movimento, e quelli inermi.
Non so riconoscere.
E poi ancora versi, che non son poemi, di bestie odoranti su lunghi camion, e poi in massa, in enormi stalle poi silenziose, fatte a fette, speziate, per adornare prelibati piatti di trepidanti, che se ne nutrono.
Non so riconoscere.
Tra coltri di nubi che son fumo di cannoni, antichi e moderni, di un tempo che non ha senso, mi tuffo in urla che so di dolore, poiché son rosse, di quegli stessi che prima si stringevano mani, ma poi li ritrovi feriti che si curano, o morti che si sotterrano. Non ne capisco il senso. Ed ancora in tanti a piangere su città di croci, ma prima, tra sorrisi, si abbracciavano.
Non ne capisco il senso. E proseguo.
Mi chiamano vento, aria, brezza, ciclone, posso dare vita e tragedia.
Accarezzo tutto e tutti. Tutto ciò che vive, che nasce, che muore, da sempre, e per sempre nel poi. Ispiro all'amore ed assisto al procreare, ne asciugo le acque, proteggo lacrime di gioia. Sprono la crescita, lasciandovi respirare. Scompiglio i capelli per un benestare. Alimento carezze nei gesti più intensi, per la migliore coscienza della dignità. Faccio volare fogli di progetti sbagliati. Alimento la lingua a chi decanta il rispetto. Tramuto le urla in grida di chi reclama giustizia. Disperdo le sillabe a chi non sa parlare, e ne prosciugo la saliva.
Ed ecco ancora, folle, follia, foschia, che creo perchè non capisco.
Non so riconoscere i vincitori dai vinti. Le spade trafiggono mentre ammazzano, e ne asciugo il sangue grondante, prima di riuscire a seccare la ferita fatale.
Non so riconoscere, ecco perchè uccido innocenti in tempeste di vento, di acqua, di terra, di mare, credendo siano i colpevoli.
Non so riconoscere.
Mi avete confuso voi, pacifisti, dittatori, dei, stolti, geni, umili, potenti, affabulatori del nulla e del tutto. Qualcuno vi ha dato il dono del pensare. Io vi dono il respiro. Voi raggirate la vita, vi riproducete sempre più, ma le città di croci, son di gran lunga più affollate, come le croci ancora in vita, tante, troppe. Vi soffio sul viso ed appare il sorriso. Esulto, ma non capisco. Lo stesso ama e fa stragi. Gioisce, tradisce, stordisce. Timido, certo, fiero, come l'arma della convenienza. Della guerra o della resa. Della certezza e del dubbio. Della burla e del consenso. Dell'ira e della dedizione. Silente, ridente, commosso, pare riflesso del cuore.
Fluttuo nell'etere e vi ritrovo dappertutto.
In ogni preciso momento, sono ovunque e chiunque siate.
Ma non vi riconosco.
Siete tanti e fate i troppi, nel vuoto che colmate con regole sfuggite. Ma sono imparziale, il mio compito eterno è raccogliere la memoria.
Circondo ed afferro ciò che sfugge.
So riconoscere.
Nelle parole al vento.
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É tramonto.
Non faccio differenza tra luce o buio, giorno e notte. Ma esisto sempre, e mai esito.
Se più mi affaccio, il giorno ha più ore, e la notte pure.
Il tempo, quel tempo scoperto, poi stabilito, mai l'ho notato. Eppure c'è, e ne viene narrato passato, presente, futuro, ma anche idea, invenzione, fantasia, sogno. Ne vengono tratte sorti, maledizioni, superstizioni, credo, ed ogni ipotesi che accompagna la vita e la morte, soddisfando ogni convenienza.
La mia indole è noncurante, ma mi addentro in ogni dettaglio non cogliendone il significato, sensibile ad ogni differenza.
Tutto è così uguale, ciclico, ma tanto diverso. E così tra i solchi delle cortecce di ogni albero, e negli sguardi umidi di ogni umano, come tra i fili d'erba che sono ovunque, e tra le pieghe della pelle di mani laboriose, ed i muri scrostati dalla storia, fino ai movimenti sinuosi di due amanti, tutto così simile, ripetuto, ripetitivo, ma così differente, unico, emozionante.
Ma non me ne accorgo, e proseguo lungo la mia strada eterna.
Penetro tra voci che già parlano, a volte gridano, non so se di gioia o di dolore, non ne conosco la differenza. Come tra quei vagoni spigolosi di un treno, non so in quale quando, tutti uniti, accartocciati l'un l'altro, gli sguardi fissi, chissà con che emozione. E urlano, molti senza voce, ma poi gli stessi li ritrovo muti, nudi credo, uno sopra l'altro, orrizzontali, in massa. Qualcuno più su, in posa verticale, mi pare ride. Ed altre folle gridanti ancora, come sciami allo stesso suono, allo stesso gesto, con egual colori.
Non so la differenza tra quei corpi in movimento, e quelli inermi.
Non so riconoscere.
E poi ancora versi, che non son poemi, di bestie odoranti su lunghi camion, e poi in massa, in enormi stalle poi silenziose, fatte a fette, speziate, per adornare prelibati piatti di trepidanti, che se ne nutrono.
Non so riconoscere.
Tra coltri di nubi che son fumo di cannoni, antichi e moderni, di un tempo che non ha senso, mi tuffo in urla che so di dolore, poiché son rosse, di quegli stessi che prima si stringevano mani, ma poi li ritrovi feriti che si curano, o morti che si sotterrano. Non ne capisco il senso. Ed ancora in tanti a piangere su città di croci, ma prima, tra sorrisi, si abbracciavano.
Non ne capisco il senso. E proseguo.
Mi chiamano vento, aria, brezza, ciclone, posso dare vita e tragedia.
Accarezzo tutto e tutti. Tutto ciò che vive, che nasce, che muore, da sempre, e per sempre nel poi. Ispiro all'amore ed assisto al procreare, ne asciugo le acque, proteggo lacrime di gioia. Sprono la crescita, lasciandovi respirare. Scompiglio i capelli per un benestare. Alimento carezze nei gesti più intensi, per la migliore coscienza della dignità. Faccio volare fogli di progetti sbagliati. Alimento la lingua a chi decanta il rispetto. Tramuto le urla in grida di chi reclama giustizia. Disperdo le sillabe a chi non sa parlare, e ne prosciugo la saliva.
Ed ecco ancora, folle, follia, foschia, che creo perchè non capisco.
Non so riconoscere i vincitori dai vinti. Le spade trafiggono mentre ammazzano, e ne asciugo il sangue grondante, prima di riuscire a seccare la ferita fatale.
Non so riconoscere, ecco perchè uccido innocenti in tempeste di vento, di acqua, di terra, di mare, credendo siano i colpevoli.
Non so riconoscere.
Mi avete confuso voi, pacifisti, dittatori, dei, stolti, geni, umili, potenti, affabulatori del nulla e del tutto. Qualcuno vi ha dato il dono del pensare. Io vi dono il respiro. Voi raggirate la vita, vi riproducete sempre più, ma le città di croci, son di gran lunga più affollate, come le croci ancora in vita, tante, troppe. Vi soffio sul viso ed appare il sorriso. Esulto, ma non capisco. Lo stesso ama e fa stragi. Gioisce, tradisce, stordisce. Timido, certo, fiero, come l'arma della convenienza. Della guerra o della resa. Della certezza e del dubbio. Della burla e del consenso. Dell'ira e della dedizione. Silente, ridente, commosso, pare riflesso del cuore.
Fluttuo nell'etere e vi ritrovo dappertutto.
In ogni preciso momento, sono ovunque e chiunque siate.
Ma non vi riconosco.
Siete tanti e fate i troppi, nel vuoto che colmate con regole sfuggite. Ma sono imparziale, il mio compito eterno è raccogliere la memoria.
Circondo ed afferro ciò che sfugge.
So riconoscere.
Nelle parole al vento.
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La matematica del mare (premio poesia concorso nazionale Marina di Pisa 2015)
La matematica del mare (premio poesia concorso nazionale Marina di Pisa 2015)
Avvolgo
nella quiete della mia immensità,
minuscola nell'universo dell'infinito,
ciò che mi è concesso donare
per la singolare perfezione della natura in ogni tempo
che mantiene ciò che vive
Coinvolgo
nella dolcezza delle mie onde,
discrete nella tonalità di ogni blu,
ciò che mi è concesso domare
nelle corrette regole del gioco in ogni libertà
che scorre in ciò che ha vita
Sconvolgo
nell'irruenza delle mie distrazioni,
sfacciate nella perfidìa di ogni corrente,
ciò che mi è concesso d'amare
tra il rispetto dei ruoli in ogni coinvolgimento
che emoziona il vivente
M'accorgo
che donando domando d'amare
mi fa esistere tra gli Elementi
ed essere importante tra i quattro
che numeri non siamo
D'accordo
con il Tutto
trattengo il mondo che aria non respira
accolgo gocce di pioggia e pianti
respingo foci che di fiumi hanno piene
sfioro il centro di una Terra sconosciuta
Concordo
e l'equilibrio è creato
e il creato è equilibrio
Non potrei esser altrove
Non potete esser altrove
Sono vita
Sono in vita
Se restate nella vita
tutto sarà
Insieme
Insieme a me
Insieme a mare
Andrea Poggipollini
Avvolgo
nella quiete della mia immensità,
minuscola nell'universo dell'infinito,
ciò che mi è concesso donare
per la singolare perfezione della natura in ogni tempo
che mantiene ciò che vive
Coinvolgo
nella dolcezza delle mie onde,
discrete nella tonalità di ogni blu,
ciò che mi è concesso domare
nelle corrette regole del gioco in ogni libertà
che scorre in ciò che ha vita
Sconvolgo
nell'irruenza delle mie distrazioni,
sfacciate nella perfidìa di ogni corrente,
ciò che mi è concesso d'amare
tra il rispetto dei ruoli in ogni coinvolgimento
che emoziona il vivente
M'accorgo
che donando domando d'amare
mi fa esistere tra gli Elementi
ed essere importante tra i quattro
che numeri non siamo
D'accordo
con il Tutto
trattengo il mondo che aria non respira
accolgo gocce di pioggia e pianti
respingo foci che di fiumi hanno piene
sfioro il centro di una Terra sconosciuta
Concordo
e l'equilibrio è creato
e il creato è equilibrio
Non potrei esser altrove
Non potete esser altrove
Sono vita
Sono in vita
Se restate nella vita
tutto sarà
Insieme
Insieme a me
Insieme a mare
Andrea Poggipollini
Avanti
Reggio Emilia, ma poteva essere ovunque (in Italia).
Camminavo.
Lui seduto su quattro ruote, due grandi e due piccine, direzionabili.
Affannava.
A bordo, una borsa ed una stampella.
La usava, assieme all'unica gamba, per spingersi, attraversando la strada, intimorito dall'esser investito.
Gente più grande di lui, perchè in piedi, ignoravano e sghignazzavano.
Si ferma, stanco.
Sono titubante, poi deciso.
Un' occhiata, poi lo spingo verso la strada richiesta, che è la mia stessa.
Gli chiedo, e mi dice dei soldi che gli sono dovuti per l'invalidità, paiono offensivi.
E' troppo giovane per averne di più dice, è un bell'uomo di mezza età, fortunato di esser ospite di una struttura, racconta ancora.
Lui è davanti. Non mi vede, mi sente soltanto.
Guido io.
Potrei spingerlo in mezzo alla strada, e farlo uccidere.
Potrei spingerlo su un prato fiorito, e fargli toccare un paradiso.
Lo spingo fino al bar, dove mi ha chiesto di portarlo.
Chiedo se ha bisogno di altro, ma lui va già verso ad un tavolo esterno prescelto, ringraziandomi senza girarsi, quasi timido.
Il suo mondo è davanti a sé, sempre.
Un ora dopo, cammino ancora sotto ai portici.
Lo vedo a ridosso di un tavolino, ad un altro bar. Guarda ovunque, nel vuoto che conosce, del suo mondo.
Cerco il suo sguardo. Mi sfiora. Non mi riconosce.
Non riconoscerebbe né l'assassino, né il benefattore.
Il suo mondo è davanti, avanti.
Proseguo.
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Reggio Emilia, ma poteva essere ovunque (in Italia).
Camminavo.
Lui seduto su quattro ruote, due grandi e due piccine, direzionabili.
Affannava.
A bordo, una borsa ed una stampella.
La usava, assieme all'unica gamba, per spingersi, attraversando la strada, intimorito dall'esser investito.
Gente più grande di lui, perchè in piedi, ignoravano e sghignazzavano.
Si ferma, stanco.
Sono titubante, poi deciso.
Un' occhiata, poi lo spingo verso la strada richiesta, che è la mia stessa.
Gli chiedo, e mi dice dei soldi che gli sono dovuti per l'invalidità, paiono offensivi.
E' troppo giovane per averne di più dice, è un bell'uomo di mezza età, fortunato di esser ospite di una struttura, racconta ancora.
Lui è davanti. Non mi vede, mi sente soltanto.
Guido io.
Potrei spingerlo in mezzo alla strada, e farlo uccidere.
Potrei spingerlo su un prato fiorito, e fargli toccare un paradiso.
Lo spingo fino al bar, dove mi ha chiesto di portarlo.
Chiedo se ha bisogno di altro, ma lui va già verso ad un tavolo esterno prescelto, ringraziandomi senza girarsi, quasi timido.
Il suo mondo è davanti a sé, sempre.
Un ora dopo, cammino ancora sotto ai portici.
Lo vedo a ridosso di un tavolino, ad un altro bar. Guarda ovunque, nel vuoto che conosce, del suo mondo.
Cerco il suo sguardo. Mi sfiora. Non mi riconosce.
Non riconoscerebbe né l'assassino, né il benefattore.
Il suo mondo è davanti, avanti.
Proseguo.
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Esasperazioni di una realtà
Un tempo dovevi fuggire, (tutti sapevano dov'eri, ma potevi non farti trovare).
Ora basta non esserci, (tutti ti trovano, ma non sanno e non interessa dove sei).
E' il tempo in cui cammini e sosti a testa bassa, concentrato sulla prolunga della tua mano retroilluminata, per cercare chi ti sta davanti, intorno, senza incontrarlo, con gesti buffi o parole per il vento.
Solo se inciampi ti accorgi, che qualcuno realmente c'è.
Ecco perchè, se non ci sei, li, dentro quella moderna tecnologia, con identità fotografiche, fedeli o assurde, e parole che narrano storie fantastiche, nel reale sei fantasma, riconosciuto solo se ti materializzi in quella comunità.
Un tempo le star erano poche, ora spopolano e sono di più degli spettatori.
Un tempo i sogni erano spontanei, segreti. Ora sono rivelati prima di esser sognati, dispersi.
E' cosi semplice essere uno spirito sconosciuto, se non compari.
Li sei, fai, diventi personaggio.
Il pedinamento non ha più passi, ma immagini, parole, in aree identificabili, grazie al ricettore che sempre hai con te, il quinto arto che pensa ed agisce negli input che dai, nel travestimento che ti conviene o decidi di indossare, per comparire, poichè l'apparire è uno status datato, e ti piace deviare da ciò che davvero sei.
Comunicare, è a testa bassa quando digiti, o a testa alta con occhi che non vedono, se parli ed ascolti l'interlocutore virtuale.
Poi, rientri al lavoro, a casa, su un mezzo di spostamento, e la ricerca di ciò che è oltre al vero, continua. Ciò che manca, poichè lontano, ciò che è desiderato, perchè sogno.
Puoi decidere di morire, per finta o per davvero. Nessuno ti crederebbe. Nessuno lo saprebbe nel tempo reale. E se muori davvero, lascerai traccia nel tuo alter ego tecnologico, a cui hai affidato verità e menzogna, segreti e virtù, decidendo, in vita, cosa rendere pubblico.
Avverti la morte, che si faccia viva poco prima di cercarti.
Hai fatto un contratto per un prolungamento della vita, o per renderla eterna, e non lo sapevi. Puoi decidere di lasciare la comunità. Allora moriresti, dimenticato o additato come traditore, offendendo chi ha avuto tue parole ed attenzioni. Non puoi decidere nulla, se ti sei travestito di quegli abiti.
Puoi solo rientrare nella vita quotidiana, sconosciuto tra i fantasmi rimasti, ma che sorridono.
Finalmente riconoscerai le stagioni, in quegli alberi che sono cresciuti, più imponenti e folti di prima, ora, che la tua testa è alta, e più nulla può distrarti da ciò che davvero accade, nella ciclicità mutevole ed inaspettata, di sempre.
Finalmente riconoscerai i tuoi simili, ed ogni dialogo avrà confronto senza filtri. Riconoscerai ogni tua capacità e qualità, nell'espressione immediata.
Ora, puoi crescere dal vero.
Ora, puoi esserci davvero.
Per te.
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Un tempo dovevi fuggire, (tutti sapevano dov'eri, ma potevi non farti trovare).
Ora basta non esserci, (tutti ti trovano, ma non sanno e non interessa dove sei).
E' il tempo in cui cammini e sosti a testa bassa, concentrato sulla prolunga della tua mano retroilluminata, per cercare chi ti sta davanti, intorno, senza incontrarlo, con gesti buffi o parole per il vento.
Solo se inciampi ti accorgi, che qualcuno realmente c'è.
Ecco perchè, se non ci sei, li, dentro quella moderna tecnologia, con identità fotografiche, fedeli o assurde, e parole che narrano storie fantastiche, nel reale sei fantasma, riconosciuto solo se ti materializzi in quella comunità.
Un tempo le star erano poche, ora spopolano e sono di più degli spettatori.
Un tempo i sogni erano spontanei, segreti. Ora sono rivelati prima di esser sognati, dispersi.
E' cosi semplice essere uno spirito sconosciuto, se non compari.
Li sei, fai, diventi personaggio.
Il pedinamento non ha più passi, ma immagini, parole, in aree identificabili, grazie al ricettore che sempre hai con te, il quinto arto che pensa ed agisce negli input che dai, nel travestimento che ti conviene o decidi di indossare, per comparire, poichè l'apparire è uno status datato, e ti piace deviare da ciò che davvero sei.
Comunicare, è a testa bassa quando digiti, o a testa alta con occhi che non vedono, se parli ed ascolti l'interlocutore virtuale.
Poi, rientri al lavoro, a casa, su un mezzo di spostamento, e la ricerca di ciò che è oltre al vero, continua. Ciò che manca, poichè lontano, ciò che è desiderato, perchè sogno.
Puoi decidere di morire, per finta o per davvero. Nessuno ti crederebbe. Nessuno lo saprebbe nel tempo reale. E se muori davvero, lascerai traccia nel tuo alter ego tecnologico, a cui hai affidato verità e menzogna, segreti e virtù, decidendo, in vita, cosa rendere pubblico.
Avverti la morte, che si faccia viva poco prima di cercarti.
Hai fatto un contratto per un prolungamento della vita, o per renderla eterna, e non lo sapevi. Puoi decidere di lasciare la comunità. Allora moriresti, dimenticato o additato come traditore, offendendo chi ha avuto tue parole ed attenzioni. Non puoi decidere nulla, se ti sei travestito di quegli abiti.
Puoi solo rientrare nella vita quotidiana, sconosciuto tra i fantasmi rimasti, ma che sorridono.
Finalmente riconoscerai le stagioni, in quegli alberi che sono cresciuti, più imponenti e folti di prima, ora, che la tua testa è alta, e più nulla può distrarti da ciò che davvero accade, nella ciclicità mutevole ed inaspettata, di sempre.
Finalmente riconoscerai i tuoi simili, ed ogni dialogo avrà confronto senza filtri. Riconoscerai ogni tua capacità e qualità, nell'espressione immediata.
Ora, puoi crescere dal vero.
Ora, puoi esserci davvero.
Per te.
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Vola (segnalato Premio Castrovillari 2010)
Vola (segnalato Premio Castrovillari 2010)
Accelera, accelera
lo schianto su quella nuvola è imminente
Fin da piccolo ti chiedevi
cosa ci fosse dentro, dietro
Poi, da grande
hai cominciato a volare
ed hai pensato di aver capito
meravigliato
Eppure ora acceleri
da grande bimbo
La salita è ripida
come una rampa di lancio
Ideale per lo schianto
Accelera, accelera
ma già sai
che la trapasserai
Oltre la salita
la discesa perfetta
Ed ancora atterri
nel mondo nuovo
del mondo stesso
La strada è lunga
le nubi eterne
Vola
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Accelera, accelera
lo schianto su quella nuvola è imminente
Fin da piccolo ti chiedevi
cosa ci fosse dentro, dietro
Poi, da grande
hai cominciato a volare
ed hai pensato di aver capito
meravigliato
Eppure ora acceleri
da grande bimbo
La salita è ripida
come una rampa di lancio
Ideale per lo schianto
Accelera, accelera
ma già sai
che la trapasserai
Oltre la salita
la discesa perfetta
Ed ancora atterri
nel mondo nuovo
del mondo stesso
La strada è lunga
le nubi eterne
Vola
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Atterro (recitato in diretta radioflash Torino 2010)
Atterro (recitato in diretta radioflash Torino 2010)
Ho preso in prestito la parola.
Pare sia l'arma che ha condizionato in ogni tempo, voi umani.
La poetica ne esce spontanea.
Atterro in questa verde piana, colori li chiamate, il cielo è di un azzurro puro. Il tempo è definito nell'oggi, nell'adesso che ognuno legge, che è d'ora in poi.
Non rivelo le mie sembianze. Potrei non averne. Potrei spaventarvi.
E' il crepuscolo, ma io vedo, e osservo una piccola folla, ossia tante persone sedute, in piedi, che attendono qualcosa. E ancora tanti colori, sull'estremità alta, che contiene i sensi più importanti, l'apice pensante pare, pieno di capigliature variegate o proseguo di pelle, dalle tante forme e lunghezze. Poi gli occhi, la visione dell'intorno. I battiti di ciglia irrequieti o calmi, rivelano la curiosità. Pare un istinto che provoca l'interesse e cerca la relazione. Ed i buffi nasi che annusano e si arricciano e coinvolgono l'avvicinamento, di ciò che è scelto. Quelle bocche poi, che divorano cibo e bevande con l'ingordigia della bestia, che teme il furto della preda. E da li esce quel suono che è voce, ed ogni dichiarazione di poesia, di amore e guerra. Ciò che vi tiene in vita.
Le età, che fan differenza, le riconosco dai solchi di rughe, che narrano ogni percorso emotivo, nelle difficoltà e negli agi della vostra esitenza, e nell'ingenuità del movimento di quei nanetti che son bimbi, voi, ancora inesperti, giovani scopritori.
Vi osservo comunicare. Toni diversi che identificano uomo e donna, cadenze altalenanti, accompagnate da gesti, che raccontano ogni intento. Un brulicare che unisce, pare.
Poi qualcosa avviene.
Da un pulpito rialzato, avanza un essere inquietante tutto in nero, nel buio illuminato artificialmente, di un tramonto ormai scomparso, mentre una nenia musicata, che fuoriesce da un serpente ad aria, compresso ed aspirato da un altro attore, ammutolisce la modesta massa umana, su quel prato. Mi chiedo che accade, ma ascolto le parole, ora, per quanto mi è concesso, le capisco. E' una recita.
Mi sono impossessato anche di una certa cultura, della memoria, dell'intuito e della comprensione delle emozioni. L'umano in nero recita Tucidide, Pasolini. Epoche diverse, poesia e letteratura di sempre. E poi l'adesso.
Cerco di comprendere il tempo, quello che passa, quello che rimane, quello che va ricordato, quello che va dimenticato. Cerco di capire perchè è così temuto, osannato, maledetto o rimpianto. Cerco di capire l'importanza della vostra storia, del perchè delle guerre per farne poi altre. Del perchè cercate la morte prematura, e nel mentre vi inventate qualcosa, per prolungare la vostra vita fisica. Parlate di eterno attraverso lo spirito, poi cercate di prevalere, prevaricare, di essere un dio, e tutto decade per la perdita dell'umiltà. Anche lo spirito è corrotto. Il dio diventa icona, dimenticando ciò che ogni umano potrebbe essere. Dio di sé.
Ma come penso? Come scrivo? Le vostre emozioni mi arrecano confusione. Mi rendo conto che è fatica esser umani.
Osservo.
Su quel palco c'è un dio forse. Tutti rivolti a lui con ogni senso, trascinati dal racconto di un passato che ascolto, identico al presente vostro di ora. Sono versi di poesia di guerra, di mediazioni e di guerra ancora, e poi disperazione, secoli dopo, pochi anni fa, e percepisco quella poetica lacrimante, come resa, che è comunque guerra silenziosa.
Mi adeguo a voi e mi chiedo dei perchè, costretto a farlo.
Lo fate alimentandone altri e le domande diventano più delle soluzioni, e quei verdetti rimangono solo filosofia, della religione, della politica, del progresso, che mi pare regresso, se ora siete qui a ricordare tempi che non avete conosciuto, ma che sono insegnamento della formazione della vostra cultura che mi pare sfascio, per le catastrofi che ancora vi circondano, naturali e provocate.
Osservo i volti, attenti, commossi, distratti, adeguati, ispirati, presuntuosi, esibizionisti, timidi, saccenti, solitari, severi, comunque tutti uniti, nella condivisione di una comunità dell'attimo.
Voi siete attimo. La vostra vita è l'insieme di tanti attimi, flagellati dalla burla del dio tempo. Continuate a voler vivere di più e meglio e proseguite ad autodistruggervi, esaltando denari e potere in quanto simboli del quieto vivere, uccidendo psiche e corpo, oggettificando l'amore, che pare sia il vostro irrisolto malanno. Siete contraddizione, ma forse siete in vita grazie ad essa.
Gli animali hanno bisogno solo del cibo per la soppravvivenza fisica, voi anche di alimento per la mente. Stasera il cibo comune è cultura, assaporata da ognuno a modo proprio. Lo stolto non capisce. Il colto capisce oltre. L'alimento è lo stesso, ma l'ingordo vince. Ecco il vostro dramma, il vittorioso ed il perdente. C'è distinzione tra voi umani ma osannate la parità e vivete nella competizione, che va oltre al gioco.
Solo un qualcosa non si estinguerà, mai. I vostri primi simili lasciavano segni, disegni, poi capolavori immensi, le arti, la poesia nei versi scritti e recitati, la letteratura nella calligrafia infinita. La scrittura, la parola, ebbene, l'immortalità della comunicazione umana, silente ed assordante, usata per ogni proclama della politica, della guerra, dell'amore, della pace.
E' tanto semplice quanto difficile stare tra voi.
Siete qui ora, per un benessere visivo ed uditivo, ma vi ascolto, parlate delle cose più atroci, facendo gara a chi ne ha di peggiori. Vi osservo. Avete moglie e guardate quella accanto, con desiderio. Avete marito e lo ignorate, guardando altrove, mute. Comprate cibo, affamati, e ne lasciate la metà marcire. Cosa manca mi chiedo, se tempo, amore, amicizia, mestiere, salute, vi portano ad una richiesta di morte prematura, per l'insoddisfazione che narrate o reprimete.
Solo nell'attimo recitato e musicato, il silenzio è attenzione, sogno, fantasia, indifferenza, arricchimento, poichè la parola scorre ed incanta, ipnotizzando ciò che dovrebbe essere vissuto con dedizione, sempre. Il comunicare. Il dono che ho io, non riconoscibile, invisibile, ma presente ora, di cui ne comprendo le potenzialità infinite, grazie al sentimento delle sensazioni che questa sera, ho preso in prestito.
Ho voluto somigliarvi. Volevo indossare l'abito della coscenza delle virtù umane.
Ho compreso. Per questo mi dileguo, scompaio. Non percepisco l'Essenza della vita breve che vivete, seppure basta un attimo per comprenderla. Vi riconsegno la parola e tutte le emozioni ed il sapere.
Tornerò al mio non tempo, per poi tornare, per osservarvi ancora, per scoprire se la vita vostra è ancora viva.
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Ho preso in prestito la parola.
Pare sia l'arma che ha condizionato in ogni tempo, voi umani.
La poetica ne esce spontanea.
Atterro in questa verde piana, colori li chiamate, il cielo è di un azzurro puro. Il tempo è definito nell'oggi, nell'adesso che ognuno legge, che è d'ora in poi.
Non rivelo le mie sembianze. Potrei non averne. Potrei spaventarvi.
E' il crepuscolo, ma io vedo, e osservo una piccola folla, ossia tante persone sedute, in piedi, che attendono qualcosa. E ancora tanti colori, sull'estremità alta, che contiene i sensi più importanti, l'apice pensante pare, pieno di capigliature variegate o proseguo di pelle, dalle tante forme e lunghezze. Poi gli occhi, la visione dell'intorno. I battiti di ciglia irrequieti o calmi, rivelano la curiosità. Pare un istinto che provoca l'interesse e cerca la relazione. Ed i buffi nasi che annusano e si arricciano e coinvolgono l'avvicinamento, di ciò che è scelto. Quelle bocche poi, che divorano cibo e bevande con l'ingordigia della bestia, che teme il furto della preda. E da li esce quel suono che è voce, ed ogni dichiarazione di poesia, di amore e guerra. Ciò che vi tiene in vita.
Le età, che fan differenza, le riconosco dai solchi di rughe, che narrano ogni percorso emotivo, nelle difficoltà e negli agi della vostra esitenza, e nell'ingenuità del movimento di quei nanetti che son bimbi, voi, ancora inesperti, giovani scopritori.
Vi osservo comunicare. Toni diversi che identificano uomo e donna, cadenze altalenanti, accompagnate da gesti, che raccontano ogni intento. Un brulicare che unisce, pare.
Poi qualcosa avviene.
Da un pulpito rialzato, avanza un essere inquietante tutto in nero, nel buio illuminato artificialmente, di un tramonto ormai scomparso, mentre una nenia musicata, che fuoriesce da un serpente ad aria, compresso ed aspirato da un altro attore, ammutolisce la modesta massa umana, su quel prato. Mi chiedo che accade, ma ascolto le parole, ora, per quanto mi è concesso, le capisco. E' una recita.
Mi sono impossessato anche di una certa cultura, della memoria, dell'intuito e della comprensione delle emozioni. L'umano in nero recita Tucidide, Pasolini. Epoche diverse, poesia e letteratura di sempre. E poi l'adesso.
Cerco di comprendere il tempo, quello che passa, quello che rimane, quello che va ricordato, quello che va dimenticato. Cerco di capire perchè è così temuto, osannato, maledetto o rimpianto. Cerco di capire l'importanza della vostra storia, del perchè delle guerre per farne poi altre. Del perchè cercate la morte prematura, e nel mentre vi inventate qualcosa, per prolungare la vostra vita fisica. Parlate di eterno attraverso lo spirito, poi cercate di prevalere, prevaricare, di essere un dio, e tutto decade per la perdita dell'umiltà. Anche lo spirito è corrotto. Il dio diventa icona, dimenticando ciò che ogni umano potrebbe essere. Dio di sé.
Ma come penso? Come scrivo? Le vostre emozioni mi arrecano confusione. Mi rendo conto che è fatica esser umani.
Osservo.
Su quel palco c'è un dio forse. Tutti rivolti a lui con ogni senso, trascinati dal racconto di un passato che ascolto, identico al presente vostro di ora. Sono versi di poesia di guerra, di mediazioni e di guerra ancora, e poi disperazione, secoli dopo, pochi anni fa, e percepisco quella poetica lacrimante, come resa, che è comunque guerra silenziosa.
Mi adeguo a voi e mi chiedo dei perchè, costretto a farlo.
Lo fate alimentandone altri e le domande diventano più delle soluzioni, e quei verdetti rimangono solo filosofia, della religione, della politica, del progresso, che mi pare regresso, se ora siete qui a ricordare tempi che non avete conosciuto, ma che sono insegnamento della formazione della vostra cultura che mi pare sfascio, per le catastrofi che ancora vi circondano, naturali e provocate.
Osservo i volti, attenti, commossi, distratti, adeguati, ispirati, presuntuosi, esibizionisti, timidi, saccenti, solitari, severi, comunque tutti uniti, nella condivisione di una comunità dell'attimo.
Voi siete attimo. La vostra vita è l'insieme di tanti attimi, flagellati dalla burla del dio tempo. Continuate a voler vivere di più e meglio e proseguite ad autodistruggervi, esaltando denari e potere in quanto simboli del quieto vivere, uccidendo psiche e corpo, oggettificando l'amore, che pare sia il vostro irrisolto malanno. Siete contraddizione, ma forse siete in vita grazie ad essa.
Gli animali hanno bisogno solo del cibo per la soppravvivenza fisica, voi anche di alimento per la mente. Stasera il cibo comune è cultura, assaporata da ognuno a modo proprio. Lo stolto non capisce. Il colto capisce oltre. L'alimento è lo stesso, ma l'ingordo vince. Ecco il vostro dramma, il vittorioso ed il perdente. C'è distinzione tra voi umani ma osannate la parità e vivete nella competizione, che va oltre al gioco.
Solo un qualcosa non si estinguerà, mai. I vostri primi simili lasciavano segni, disegni, poi capolavori immensi, le arti, la poesia nei versi scritti e recitati, la letteratura nella calligrafia infinita. La scrittura, la parola, ebbene, l'immortalità della comunicazione umana, silente ed assordante, usata per ogni proclama della politica, della guerra, dell'amore, della pace.
E' tanto semplice quanto difficile stare tra voi.
Siete qui ora, per un benessere visivo ed uditivo, ma vi ascolto, parlate delle cose più atroci, facendo gara a chi ne ha di peggiori. Vi osservo. Avete moglie e guardate quella accanto, con desiderio. Avete marito e lo ignorate, guardando altrove, mute. Comprate cibo, affamati, e ne lasciate la metà marcire. Cosa manca mi chiedo, se tempo, amore, amicizia, mestiere, salute, vi portano ad una richiesta di morte prematura, per l'insoddisfazione che narrate o reprimete.
Solo nell'attimo recitato e musicato, il silenzio è attenzione, sogno, fantasia, indifferenza, arricchimento, poichè la parola scorre ed incanta, ipnotizzando ciò che dovrebbe essere vissuto con dedizione, sempre. Il comunicare. Il dono che ho io, non riconoscibile, invisibile, ma presente ora, di cui ne comprendo le potenzialità infinite, grazie al sentimento delle sensazioni che questa sera, ho preso in prestito.
Ho voluto somigliarvi. Volevo indossare l'abito della coscenza delle virtù umane.
Ho compreso. Per questo mi dileguo, scompaio. Non percepisco l'Essenza della vita breve che vivete, seppure basta un attimo per comprenderla. Vi riconsegno la parola e tutte le emozioni ed il sapere.
Tornerò al mio non tempo, per poi tornare, per osservarvi ancora, per scoprire se la vita vostra è ancora viva.
APP
ImmaginandoVi (premio giuria concorso nazionale Marina di Pisa 2011)
ImmaginandoVi (premio giuria concorso nazionale Marina di Pisa 2011)
Non conosco quel mare
se non ricordando notti d'adolescenza
Lacrime dolci d'innamorata lontana
perdute nel sale di quelle onde
note a Voi
uomini d'oggi di battaglie antiche
Non conosco quel mare
e la modernità m'informa senza viverlo
Mi suggerisce intuizioni
Io, straniero senza esserci, sono tra Voi
Sorvolo le immagini
mi addentro nella storia
Respiro i fumi rimasti, ed i profumi che sono
Non conosco quel mare
ma dall'alto del basso affondo i piedi
in quelle sabbie a Voi conosciute
Sogno ciò che vedete, monti isole e pinete
Imparo tradizioni ed abitudini
Aggiusto le grandi reti di fine d'Arno
cosa, di rare mani abili
Non conosco quel mare
Le onde, sempre quelle, mai di altri
Il passato, mai trascorso, sempre nuovo
La natura, selvatica, costruita, mai offesa
Voi, accogliendo noi
vi accorgete di ciò che avete, sapendolo
Riconosco quel mare
ora, poichè il sempre è già stato
E. Ci sarò, nel poi
Grazie. A voi
APP
Non conosco quel mare
se non ricordando notti d'adolescenza
Lacrime dolci d'innamorata lontana
perdute nel sale di quelle onde
note a Voi
uomini d'oggi di battaglie antiche
Non conosco quel mare
e la modernità m'informa senza viverlo
Mi suggerisce intuizioni
Io, straniero senza esserci, sono tra Voi
Sorvolo le immagini
mi addentro nella storia
Respiro i fumi rimasti, ed i profumi che sono
Non conosco quel mare
ma dall'alto del basso affondo i piedi
in quelle sabbie a Voi conosciute
Sogno ciò che vedete, monti isole e pinete
Imparo tradizioni ed abitudini
Aggiusto le grandi reti di fine d'Arno
cosa, di rare mani abili
Non conosco quel mare
Le onde, sempre quelle, mai di altri
Il passato, mai trascorso, sempre nuovo
La natura, selvatica, costruita, mai offesa
Voi, accogliendo noi
vi accorgete di ciò che avete, sapendolo
Riconosco quel mare
ora, poichè il sempre è già stato
E. Ci sarò, nel poi
Grazie. A voi
APP
Per lui (selezionato per festa della donna 2010)
Per lui (selezionato per festa della donna 2010)
Quanto ti fa sentire
quella madre che con amore ti allatta
Quanto ti fa sentire bambina
quella donna che con orgoglio ti cresce
Quanto ti fa sentire ragazza
quel padre che commosso, di nascosto ti osserva
Quanto ti fa sentire donna
quell'uomo che per primo ti ama
Quanto ti fa sentire donna
l'uomo che per primo ti delude
Quanto ti fa sentire donna
la passione che sai
Quanto ti fa sentire donna
il seme che ti rende la vita
Quanto ti fa sentire donna
quel bambino che ti chiama mamma
Quanto ti fa sentire donna
quel compagno indegno
Quanto ti fa sentire donna
il tanto amore incompreso
Quanto ti fa sentire donna
quel ragazzo del tuo sangue
Quanto ti fa sentire donna
l'uomo che hai reso tale
Quanto ti fa sentire donna
quel sorriso adulto che ringrazia
Quanto ti fa sentire donna
ora, che sola, hai tutti intorno
Quanto ti fa sentire donna
quando accarezzi le tue rughe sapienti allo specchio
Quanto ti fa sentire donna
la vita s'finita, ma che sai eterna
Quando ti fai capire, donna
Quell'uomo non se accorge
mai
APP
Quanto ti fa sentire
quella madre che con amore ti allatta
Quanto ti fa sentire bambina
quella donna che con orgoglio ti cresce
Quanto ti fa sentire ragazza
quel padre che commosso, di nascosto ti osserva
Quanto ti fa sentire donna
quell'uomo che per primo ti ama
Quanto ti fa sentire donna
l'uomo che per primo ti delude
Quanto ti fa sentire donna
la passione che sai
Quanto ti fa sentire donna
il seme che ti rende la vita
Quanto ti fa sentire donna
quel bambino che ti chiama mamma
Quanto ti fa sentire donna
quel compagno indegno
Quanto ti fa sentire donna
il tanto amore incompreso
Quanto ti fa sentire donna
quel ragazzo del tuo sangue
Quanto ti fa sentire donna
l'uomo che hai reso tale
Quanto ti fa sentire donna
quel sorriso adulto che ringrazia
Quanto ti fa sentire donna
ora, che sola, hai tutti intorno
Quanto ti fa sentire donna
quando accarezzi le tue rughe sapienti allo specchio
Quanto ti fa sentire donna
la vita s'finita, ma che sai eterna
Quando ti fai capire, donna
Quell'uomo non se accorge
mai
APP
Vetro
Ricordo un nonno
il mio
negli ultimi giorni
seduto davanti, dietro ad un vetro di una finestra
Mi narrava ciò che vedeva
insegnandomi ad osservare
imparando i perchè
Colto in ogni certezza
Egli fermo, il resto in movimento
Ricordo un bimbo
ero io
nei giorni seguenti
in piedi a ridosso, incollato ad un vetro di molti treni
Immaginavo ciò che notavo
narrandomi ogni visione
inventando i perchè
Colto in ogni fantasia
Io in movimento, il resto fermo
Ricordo un ragazzo
mio nipote
per giorni a venire
in ogni posizione, sfiorando un vetro di infiniti colori
Osservava ciò che cercava
risolvendo ogni quesito
senza saperne i perchè
Colto in ogni tema
Lui immobile, il resto manovrato
APP
Ricordo un nonno
il mio
negli ultimi giorni
seduto davanti, dietro ad un vetro di una finestra
Mi narrava ciò che vedeva
insegnandomi ad osservare
imparando i perchè
Colto in ogni certezza
Egli fermo, il resto in movimento
Ricordo un bimbo
ero io
nei giorni seguenti
in piedi a ridosso, incollato ad un vetro di molti treni
Immaginavo ciò che notavo
narrandomi ogni visione
inventando i perchè
Colto in ogni fantasia
Io in movimento, il resto fermo
Ricordo un ragazzo
mio nipote
per giorni a venire
in ogni posizione, sfiorando un vetro di infiniti colori
Osservava ciò che cercava
risolvendo ogni quesito
senza saperne i perchè
Colto in ogni tema
Lui immobile, il resto manovrato
APP
P.S.
Il palcoscenico è affollato oggi.
Le comparse, gli attori, i protagonisti, i tecnici, gli addetti, sono al loro posto, per un altro giorno di regia confusa.
La capocomparsa è nervosa. Il suo turno scade tra poco. Sbuffa, ed impreca lamentele e moralismi, che sono sentenze. Alcuni, i nuovi arrivati, la temono. Gli altri, quelli attenti, la deridono o si ribellano, così, per gioco.
Le età sono tante. Le fisionomie altrettante. Si distinguono le razze e caratteristiche. Attori che arrivano senza orario. Chi accompagnato da conoscenti o sconosciuti. Chi solo. Chi preparato, con il copione sottobraccio. Chi perso, anche lacrimante per l'emozione.
Rivelano all'accettazione i loro dati e poi li, in una lunga o breve attesa per il provino, il primo, o quello che li proclamerà protagonisti, o almeno tali.
Davanti a me, in un androne, dopo un lungo corridoio che dà sui camerini, un attore, supino, evidentemente prova il dramma di una parte, e di spalle si lamenta. Intorno ha due ancelle, la madre e la sorella, così rumorose e tanto pacchione e pacchiane, che imbarazzerebbero il più bifolco. Proseguono noncuranti le azioni.
I corridoi, quello principale, è colmo di silenzi, imbarazzi, sofferenze, e tanto vociame confuso e distorto, per l'attesa del debutto.
Tante porte. Non rivelano quale è l'ingresso che spetta per quel provino, che consacra o licenzia. Lei, bellissima, è li, nascosta nel suo turbante, che le scopre il viso olivastro. Gli occhi descrivono le movenze, ed osservano tutto, cioè nulla, poiché pensano altrove. Stringe la mano al suo lui, che giace come morto, ma concentrato, in trance.
Là, uno più grosso, un figurante, con stampelle complicate, ed un dolce giovane angelo, che lo accompagna, che lo sostiene.
Ed ancora uno pallido, magrissimo, con un viso caratteristico. Vaga tra tutti. Presente. Assente. Come se volesse fuggire. Sapendo di rimanere.
Chissà che ruoli hanno preparato. Chissà chi fingono di essere. Chi sono in realtà.
Tanti occhi guardano, si guardano, non osservano. Tanti occhi per la metà dei presenti.
C'è il cambio della capocomparsa. E' un lui. Pare in divisa, come pochi altri. Corre tra la folla per donare belle parole, come conforto a dei condannati di speranze. Gira e si aggira. Controlla. Spiritoso e severo con tutti senza distinguo, poiché sapiente nel suo mestiere.
Ma ecco, ecco il momento. Chiamano.
E' il nome di mio padre, il mio cognome.
Ambulatorio tre. Dottor Traversi.
Il pronto soccorso ha un maleodore.
Sorrido agli attori rimasti, ed accompagno il mio vecchio fin dove mi lasciano.
Il regista ed i suoi aiuti, lo attendono. Le domande sono tante, i test lunghi.
Chissà se lo tratterranno, e debutterà recitando. O se lo lasceranno, e rimarrà tra il pubblico.
Noi quaggiù. Loro lassù.
Attori.
Uguali.
APP
Il palcoscenico è affollato oggi.
Le comparse, gli attori, i protagonisti, i tecnici, gli addetti, sono al loro posto, per un altro giorno di regia confusa.
La capocomparsa è nervosa. Il suo turno scade tra poco. Sbuffa, ed impreca lamentele e moralismi, che sono sentenze. Alcuni, i nuovi arrivati, la temono. Gli altri, quelli attenti, la deridono o si ribellano, così, per gioco.
Le età sono tante. Le fisionomie altrettante. Si distinguono le razze e caratteristiche. Attori che arrivano senza orario. Chi accompagnato da conoscenti o sconosciuti. Chi solo. Chi preparato, con il copione sottobraccio. Chi perso, anche lacrimante per l'emozione.
Rivelano all'accettazione i loro dati e poi li, in una lunga o breve attesa per il provino, il primo, o quello che li proclamerà protagonisti, o almeno tali.
Davanti a me, in un androne, dopo un lungo corridoio che dà sui camerini, un attore, supino, evidentemente prova il dramma di una parte, e di spalle si lamenta. Intorno ha due ancelle, la madre e la sorella, così rumorose e tanto pacchione e pacchiane, che imbarazzerebbero il più bifolco. Proseguono noncuranti le azioni.
I corridoi, quello principale, è colmo di silenzi, imbarazzi, sofferenze, e tanto vociame confuso e distorto, per l'attesa del debutto.
Tante porte. Non rivelano quale è l'ingresso che spetta per quel provino, che consacra o licenzia. Lei, bellissima, è li, nascosta nel suo turbante, che le scopre il viso olivastro. Gli occhi descrivono le movenze, ed osservano tutto, cioè nulla, poiché pensano altrove. Stringe la mano al suo lui, che giace come morto, ma concentrato, in trance.
Là, uno più grosso, un figurante, con stampelle complicate, ed un dolce giovane angelo, che lo accompagna, che lo sostiene.
Ed ancora uno pallido, magrissimo, con un viso caratteristico. Vaga tra tutti. Presente. Assente. Come se volesse fuggire. Sapendo di rimanere.
Chissà che ruoli hanno preparato. Chissà chi fingono di essere. Chi sono in realtà.
Tanti occhi guardano, si guardano, non osservano. Tanti occhi per la metà dei presenti.
C'è il cambio della capocomparsa. E' un lui. Pare in divisa, come pochi altri. Corre tra la folla per donare belle parole, come conforto a dei condannati di speranze. Gira e si aggira. Controlla. Spiritoso e severo con tutti senza distinguo, poiché sapiente nel suo mestiere.
Ma ecco, ecco il momento. Chiamano.
E' il nome di mio padre, il mio cognome.
Ambulatorio tre. Dottor Traversi.
Il pronto soccorso ha un maleodore.
Sorrido agli attori rimasti, ed accompagno il mio vecchio fin dove mi lasciano.
Il regista ed i suoi aiuti, lo attendono. Le domande sono tante, i test lunghi.
Chissà se lo tratterranno, e debutterà recitando. O se lo lasceranno, e rimarrà tra il pubblico.
Noi quaggiù. Loro lassù.
Attori.
Uguali.
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L'uomo del cinema (dedicato)
A giorni alterni, accade un grande evento per piccoli e poco più grandi, e gli adulti rimangono in casa, trattenendo la curiosità, attendendo la soddisfazione nel racconto.
Lui, l'uomo del cinema, e non è attore, regista o altro, come ci immaginiamo, ma è un colui che ha reinventato il tempo, nel tempo di un un luogo che non ne ha.
Su quel tessuto bianco ben steso tra legni che lo incorniciano, accende luce nella serata notturna che accoglie raggi di luna e di qualche lume artificiale necessario, poiché il buio della natura ha il sopravvento.
Del villaggio, non ci importa sia di legno, di muratura, di case, di chiese, o di sabbia o di sassi, di un presente, un passato, o realtà che sarà.
L'uomo del cinema tutti sapevano chi era, poiché certi del luogo dove raggiungerlo, ma poi non interessava sapere altro.
La vita non ha storia li, se non quella narrata nel presente, divagando nell'immaginario degli accadimenti di poco fa.
La magia ha inizio. Il bianco del tessuto si anima di colori e chiaroscuri.
E' irrilevante il significato delle immagini, ma è la sorpresa di sapere che esiste qualcosa di diverso, senza domande nei perchè e che cosa è, per potere ritrovare e rivivere l'emozione ogni volta.
L'uomo del cinema forse non esiste. Vaga in ogni tempo, di luogo in luogo, cercando la meraviglia negli sguardi, che sanno ancora sorprendersi.
Appena spegne quella luce, scompare.
Tutti tornano come prima, nelle tenebre e nei giorni, più ricchi di sogni e di racconti.
Loro, lo sanno che non esiste.
Per questo lo cercano, sapendo dove trovarlo.
APP
A giorni alterni, accade un grande evento per piccoli e poco più grandi, e gli adulti rimangono in casa, trattenendo la curiosità, attendendo la soddisfazione nel racconto.
Lui, l'uomo del cinema, e non è attore, regista o altro, come ci immaginiamo, ma è un colui che ha reinventato il tempo, nel tempo di un un luogo che non ne ha.
Su quel tessuto bianco ben steso tra legni che lo incorniciano, accende luce nella serata notturna che accoglie raggi di luna e di qualche lume artificiale necessario, poiché il buio della natura ha il sopravvento.
Del villaggio, non ci importa sia di legno, di muratura, di case, di chiese, o di sabbia o di sassi, di un presente, un passato, o realtà che sarà.
L'uomo del cinema tutti sapevano chi era, poiché certi del luogo dove raggiungerlo, ma poi non interessava sapere altro.
La vita non ha storia li, se non quella narrata nel presente, divagando nell'immaginario degli accadimenti di poco fa.
La magia ha inizio. Il bianco del tessuto si anima di colori e chiaroscuri.
E' irrilevante il significato delle immagini, ma è la sorpresa di sapere che esiste qualcosa di diverso, senza domande nei perchè e che cosa è, per potere ritrovare e rivivere l'emozione ogni volta.
L'uomo del cinema forse non esiste. Vaga in ogni tempo, di luogo in luogo, cercando la meraviglia negli sguardi, che sanno ancora sorprendersi.
Appena spegne quella luce, scompare.
Tutti tornano come prima, nelle tenebre e nei giorni, più ricchi di sogni e di racconti.
Loro, lo sanno che non esiste.
Per questo lo cercano, sapendo dove trovarlo.
APP
Neri nel buio
Erano in molti, in tanti, e non me ne accorgevo.
Erano silenziosi, dal portamento più nobile, lo intuivo.
La pelle dal forte odore, è l'abito più elegante che indossano. I piedi dalla pianta indeformata, sono le scarpe più lussuose. Tessuti coprono il sesso, fino alle ginocchia ai maschi, oltre al seno, alle femmine. Lo scoprii di giorno. I colori erano sgargianti.
Erano in molti, così tanti, che solo l'udito se ne accorgeva.
Sgrano gli occhi cercando di vedere come in un sogno.
La sabbia, sotto ai miei piedi sensibili ed ancora fragili del mio mondo certo, fatto dalle scarpe più sicure, mi ricorda che cammino per davvero.
Non ho paura, ma se lo raccontassi, non a loro, agli altri, mi direbbero di averne, poiché non sono nel mio reale.
So che sono in molti, li ho intorno, ma non mi circondano. Sono curiosi, ed io potrei avere timore.
Mi vedono. Ho un colore diverso, nel riflesso delle stelle al sole, che fa giorno nell'altro emisfero.
Riderebbero se sapessero riconoscere la paura, la mia, che nego.
Ora sono certo. Sono in molti. Sorridono. Ridono.
Denti bianchi ed occhi accesi, belli, amichevoli, e chiedono, senza volere sapere dei perchè. Inconsapevoli, istintivi. Nella certezza di ciò che esiste, rispettano il giorno, rispettano la notte. Rispettano me, che irrompo nei loro ritmi irrequieti, sempre quelli, della natura ciclica, instabile.
Mi annusano con lo sguardo, come animali pensanti. La loro lingua tribale è una melodia estinta. Se fossi l'invasore, confonderei il gentile modo di salutare, come il verso insistente di una bestia.
Sono ospite invece, di un sogno che ricorda le origini, o di un futuro di purezza ed equilibrio.
Neri nel buio. Padroni nella natura, che dirige giorno e notti mai uguali.
Voci mature ed infanti, di frasi essenziali, poesie della cultura dell'indispensabile. Tutto è antico mai rinnovato, sempre attuale. I cantici sono riti di nenie eterne, disciplina necessaria, ripetitiva, ad ogni luce, nuova.
Sfilano nella notte acclamando lo straniero impacciato, io, che calpesto la sabbia fredda, lasciando impronte aliene, che non corrispondono a questa luna, terra, pianeta, non so più.
Fuggo dai nemici inventati. Mi rifugio nella capanna che mi ospita, si capanna, al lume di una candela. Ho portato portato Dante, Platone, Stendhal. Libri. La cultura, la sapienza, ci hanno fatto vivere trenta anni in più, ed aggiungo tutto quel resto, per non esser criticato.
Loro vedono di notte, intuiscono. Sanno. Muoiono nella mezza età. Non ricordano di chi sono figli e dimenticano di tenere il conto degli anni. La famiglia, la comunità, la donna, il senso dell'unione, la solidarietà, sono fondamento.
Nascono e muoiono con il sorriso. Non sprovveduti, ma fratelli della natura che proseguirà la specie.
Penso a tutto questo, tra le quattro mura che sono legni, guardando il soffitto in paglia, oltre al libro che racconto a me stesso di leggere.
Immaginando loro. Li fuori ora, ovunque, disciplinati, che si adagiano nel sonno, se sono bestie diurne, o nelle danze, se sono bestie notturne.
Penso a me.
Loro, siamo stati noi.
Passeggio nel museo oscuro, ma cosi chiaro di ciò che eravamo.
Intruso nell'allerta di stupori, mi meraviglio delle mie origini.
Un antico specchio dimenticato.
Cammino nel buio della mia coscenza. Della conoscenza, ne faccio ricordo senza vanto, qui.
Qui.
L'anima vive nuda, pura, incoscente senza domande. I valori sono indiscussi. Discutendone, noi, sappiamo distinguerli e disperderli.
Mi stupisco di questi sorrisi.
Li avevo dimenticati.
Non li dimenticherò.
Ricordiamoci di noi.
APP
Erano in molti, in tanti, e non me ne accorgevo.
Erano silenziosi, dal portamento più nobile, lo intuivo.
La pelle dal forte odore, è l'abito più elegante che indossano. I piedi dalla pianta indeformata, sono le scarpe più lussuose. Tessuti coprono il sesso, fino alle ginocchia ai maschi, oltre al seno, alle femmine. Lo scoprii di giorno. I colori erano sgargianti.
Erano in molti, così tanti, che solo l'udito se ne accorgeva.
Sgrano gli occhi cercando di vedere come in un sogno.
La sabbia, sotto ai miei piedi sensibili ed ancora fragili del mio mondo certo, fatto dalle scarpe più sicure, mi ricorda che cammino per davvero.
Non ho paura, ma se lo raccontassi, non a loro, agli altri, mi direbbero di averne, poiché non sono nel mio reale.
So che sono in molti, li ho intorno, ma non mi circondano. Sono curiosi, ed io potrei avere timore.
Mi vedono. Ho un colore diverso, nel riflesso delle stelle al sole, che fa giorno nell'altro emisfero.
Riderebbero se sapessero riconoscere la paura, la mia, che nego.
Ora sono certo. Sono in molti. Sorridono. Ridono.
Denti bianchi ed occhi accesi, belli, amichevoli, e chiedono, senza volere sapere dei perchè. Inconsapevoli, istintivi. Nella certezza di ciò che esiste, rispettano il giorno, rispettano la notte. Rispettano me, che irrompo nei loro ritmi irrequieti, sempre quelli, della natura ciclica, instabile.
Mi annusano con lo sguardo, come animali pensanti. La loro lingua tribale è una melodia estinta. Se fossi l'invasore, confonderei il gentile modo di salutare, come il verso insistente di una bestia.
Sono ospite invece, di un sogno che ricorda le origini, o di un futuro di purezza ed equilibrio.
Neri nel buio. Padroni nella natura, che dirige giorno e notti mai uguali.
Voci mature ed infanti, di frasi essenziali, poesie della cultura dell'indispensabile. Tutto è antico mai rinnovato, sempre attuale. I cantici sono riti di nenie eterne, disciplina necessaria, ripetitiva, ad ogni luce, nuova.
Sfilano nella notte acclamando lo straniero impacciato, io, che calpesto la sabbia fredda, lasciando impronte aliene, che non corrispondono a questa luna, terra, pianeta, non so più.
Fuggo dai nemici inventati. Mi rifugio nella capanna che mi ospita, si capanna, al lume di una candela. Ho portato portato Dante, Platone, Stendhal. Libri. La cultura, la sapienza, ci hanno fatto vivere trenta anni in più, ed aggiungo tutto quel resto, per non esser criticato.
Loro vedono di notte, intuiscono. Sanno. Muoiono nella mezza età. Non ricordano di chi sono figli e dimenticano di tenere il conto degli anni. La famiglia, la comunità, la donna, il senso dell'unione, la solidarietà, sono fondamento.
Nascono e muoiono con il sorriso. Non sprovveduti, ma fratelli della natura che proseguirà la specie.
Penso a tutto questo, tra le quattro mura che sono legni, guardando il soffitto in paglia, oltre al libro che racconto a me stesso di leggere.
Immaginando loro. Li fuori ora, ovunque, disciplinati, che si adagiano nel sonno, se sono bestie diurne, o nelle danze, se sono bestie notturne.
Penso a me.
Loro, siamo stati noi.
Passeggio nel museo oscuro, ma cosi chiaro di ciò che eravamo.
Intruso nell'allerta di stupori, mi meraviglio delle mie origini.
Un antico specchio dimenticato.
Cammino nel buio della mia coscenza. Della conoscenza, ne faccio ricordo senza vanto, qui.
Qui.
L'anima vive nuda, pura, incoscente senza domande. I valori sono indiscussi. Discutendone, noi, sappiamo distinguerli e disperderli.
Mi stupisco di questi sorrisi.
Li avevo dimenticati.
Non li dimenticherò.
Ricordiamoci di noi.
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Conosco
Conosco
chi per eterne stagioni
trattiene parole, pensieri, gesti, fantasie
per la speranza
Conosco
chi per una supposta eternità
esagera in parole, pensieri, gesti, fantasie
per l'immaginato
Comprendo
la dedizione
nella pretesa del riconoscimento
in parole, pensieri, gesti, fantasie
Ciò che non coincide
ciò che non è desiderato
è indifferenza, noia, beneficenza
nella circostanza del rispetto
che rimane o sfuma a piacimento
dell'attore che recita
la parte del necessario
Osservare la ciclicità dell'esitere
nei multiformi aspetti, pur sempre ripetitivi
sbalordisce nell'esserci dentro appieno
Ed ancora la sofferenza e la gioia
raccontano ogni fatica, che inciampa nell'amore
nel sesso dello svolgimento
di ogni nascita, crescita, morte
Evitare ciò che affatica
Affaticarsi in ciò che è improbabile
Dedicarsi senza interesse, a ciò che è benessere dell'attimo
Importante è, non sfuggirsi
Siamo così meravigliosi
Ma vorrei uccidermi ed uccidere
per capire cosa è vivere
Piango, acqua
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Conosco
chi per eterne stagioni
trattiene parole, pensieri, gesti, fantasie
per la speranza
Conosco
chi per una supposta eternità
esagera in parole, pensieri, gesti, fantasie
per l'immaginato
Comprendo
la dedizione
nella pretesa del riconoscimento
in parole, pensieri, gesti, fantasie
Ciò che non coincide
ciò che non è desiderato
è indifferenza, noia, beneficenza
nella circostanza del rispetto
che rimane o sfuma a piacimento
dell'attore che recita
la parte del necessario
Osservare la ciclicità dell'esitere
nei multiformi aspetti, pur sempre ripetitivi
sbalordisce nell'esserci dentro appieno
Ed ancora la sofferenza e la gioia
raccontano ogni fatica, che inciampa nell'amore
nel sesso dello svolgimento
di ogni nascita, crescita, morte
Evitare ciò che affatica
Affaticarsi in ciò che è improbabile
Dedicarsi senza interesse, a ciò che è benessere dell'attimo
Importante è, non sfuggirsi
Siamo così meravigliosi
Ma vorrei uccidermi ed uccidere
per capire cosa è vivere
Piango, acqua
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Cara amica
Cara amica,
ti scrivo, così mi distraggo un po', ha cantato qualcuno.
Il comunicare di noi donne, tra donne, è così diverso da quello dei nostri amati ed odiati uomini.
Tanto amiche. Morbose fino al sangue, agguerrite, perfide, calcolatrici, competitive, invidiose, strateghe,...ma sempre così meravigliose nel bene e nel male, nella gioia e nel dramma. Così attrici, così spontanee.
Amica mia, se solo i maschi capissero il mestiere che noi siamo, già prima che qualunque forma di meritato lavoro ci sfiori, già da quando nostro padre ci osserva e ci addita come l'essere diverso e ci fa crescere tra attenzioni e disattenzioni, tutte all'eccesso.
Se solo capissero gli sguardi di troppo che ci danno fin da piccole alcuni, e dalle quali dobbiamo da subito, cercare di difenderci, magari sempre e solo in silenzio.
La nostra trasformazione è ogni giorno, ogni attimo, ed il nostro capriccio spontaneo è incompreso.
Siamo la natura, e diamo vita e morte, seguendo la nostra morale, dettata dall'esperienza.
Amica mia ti scrivo, non per ricordarti chi siamo, ma per parlare quasi a me stessa, per ricordarmi e chiedermi se so amare.
L'irrequietezza ci appartiene, ma è un dono della natura, che ci ha elette responsabili del futuro della nostra specie.
Mi chiedo se mai potremo fare capire ciò, al nostro “padrone”, il maschio, che ci possiede e di cui dobbiamo sempre decantarne la virilità, per evitare di perderlo altrove.
Noi siamo superbe, lui vanitoso, quasi un equilibrio perfetto, per una relazione di appartenenza.
Diamo il potere al maschio, ma alla guida siamo sempre noi, forti, che sopportiamo, supportiamo, la sua arrogante presunzione, violenta o mite che sia, costrette ad alimentarne ogni gesta, per non farci abbandonare.
Ed eccoci pronte a sostenerlo sempre, per non ammosciare la sua prestazione, che se fosse sessuale, l'andrebbe a cercare lontano, e rimaniamo poi solo consigliere e mamme. Lui evade i nostri schietti e capricciosi umori, e li mantiene solo se può penetrarli. Il capriccio eccita, finchè non diventa eccesso ripetitivo.
Siamo noi che decidiamo che sesso farci dare dal nostro uomo, padrone, schiavo. La sua erezione dipende dalla sessualità di donna che gli diamo. Così ci fa sesso l'intelletto, come ogni potere che prevale. Sappiamo scopare un corpo come una mente, e comandare, illudendo lui, di dominarci.
Dolce amica, mai potremmo farci capire a lui, nei nostri venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta anni, nel progresso della nostra naturale evoluzione, quanto in quella necessaria. Anche se abbiamo potere, gli chiediamo protezione. Ci prostituiamo sempre, anche se non siamo puttane, cercando l'amore, utopia d'eternità. Ma un cazzo non ce la potrà mai dare, perchè più instabile della nostra perenne inquietudine, ma tanto fedele alla nostra natura di femmina, che ciclicamente cerca certezze, come cerca un figlio, e poi mai più ne vuole.
Che ne sa lui dell'ingenuità di scoprirci donna, poi, la prima penetrazione.
Lui dà, noi riceviamo. L'essenza di questo atto a lui sfuggirà sempre. Lui è l'animale e deve esaurire il suo piacere. E noi la mente ricevente, attente a non negargli piaceri. Poi la voglia di un figlio, il terrore di non averlo, il rifiuto dello stesso, poi il rimpianto, e l'abbandono che ci tocca per averlo avuto. Ed ancora la solitudine, la pochezza del troppo avere, e sempre il capriccio, del tutto, del nulla.
Dopo si invecchia. Si pretende ciò che non si ha, o nulla vogliamo di più e la paura, la paura di invecchiare, e ci rifugiamo nei desideri più insoliti o troppo soliti, con il terrore di perdere ogni treno. La fine del ciclo della nostra sessualità, per ritrovarne un altra.
Amica mia, siamo meravigliose, senza noi ogni mondo sarebbe annoiato. I maschi farebbero guerre di potere, e con la loro supponenza naturale, si estinguerebbero a breve. Ogni politica senza la nostra ombra, più o meno visibile, sarebbe sfascio.
Ma. Cerchiamo di non dimenticare l'amore, che non ha a che fare con prestazione virile o di potere, anche se le due cose vanno di pari passo. L'amore che parte dal nostro riflesso e senza quel rifletterci consapevole, l'uomo, il maschio, non sarebbe tale, ma noi donne, siamo immortali, lui no.
Lui ha bisogno di noi. Noi possiamo usare ciò di cui necessitiamo.
Amica mia, scusa lo sfogo.
Proseguirò con la mia capricciosa superbia, a cercare carne e mente, per nutrire i miei bisogni, fino a che potrò.
Ma cerco l'amore, sai, l'amore.
Ciao.
APP
Cara amica,
ti scrivo, così mi distraggo un po', ha cantato qualcuno.
Il comunicare di noi donne, tra donne, è così diverso da quello dei nostri amati ed odiati uomini.
Tanto amiche. Morbose fino al sangue, agguerrite, perfide, calcolatrici, competitive, invidiose, strateghe,...ma sempre così meravigliose nel bene e nel male, nella gioia e nel dramma. Così attrici, così spontanee.
Amica mia, se solo i maschi capissero il mestiere che noi siamo, già prima che qualunque forma di meritato lavoro ci sfiori, già da quando nostro padre ci osserva e ci addita come l'essere diverso e ci fa crescere tra attenzioni e disattenzioni, tutte all'eccesso.
Se solo capissero gli sguardi di troppo che ci danno fin da piccole alcuni, e dalle quali dobbiamo da subito, cercare di difenderci, magari sempre e solo in silenzio.
La nostra trasformazione è ogni giorno, ogni attimo, ed il nostro capriccio spontaneo è incompreso.
Siamo la natura, e diamo vita e morte, seguendo la nostra morale, dettata dall'esperienza.
Amica mia ti scrivo, non per ricordarti chi siamo, ma per parlare quasi a me stessa, per ricordarmi e chiedermi se so amare.
L'irrequietezza ci appartiene, ma è un dono della natura, che ci ha elette responsabili del futuro della nostra specie.
Mi chiedo se mai potremo fare capire ciò, al nostro “padrone”, il maschio, che ci possiede e di cui dobbiamo sempre decantarne la virilità, per evitare di perderlo altrove.
Noi siamo superbe, lui vanitoso, quasi un equilibrio perfetto, per una relazione di appartenenza.
Diamo il potere al maschio, ma alla guida siamo sempre noi, forti, che sopportiamo, supportiamo, la sua arrogante presunzione, violenta o mite che sia, costrette ad alimentarne ogni gesta, per non farci abbandonare.
Ed eccoci pronte a sostenerlo sempre, per non ammosciare la sua prestazione, che se fosse sessuale, l'andrebbe a cercare lontano, e rimaniamo poi solo consigliere e mamme. Lui evade i nostri schietti e capricciosi umori, e li mantiene solo se può penetrarli. Il capriccio eccita, finchè non diventa eccesso ripetitivo.
Siamo noi che decidiamo che sesso farci dare dal nostro uomo, padrone, schiavo. La sua erezione dipende dalla sessualità di donna che gli diamo. Così ci fa sesso l'intelletto, come ogni potere che prevale. Sappiamo scopare un corpo come una mente, e comandare, illudendo lui, di dominarci.
Dolce amica, mai potremmo farci capire a lui, nei nostri venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta anni, nel progresso della nostra naturale evoluzione, quanto in quella necessaria. Anche se abbiamo potere, gli chiediamo protezione. Ci prostituiamo sempre, anche se non siamo puttane, cercando l'amore, utopia d'eternità. Ma un cazzo non ce la potrà mai dare, perchè più instabile della nostra perenne inquietudine, ma tanto fedele alla nostra natura di femmina, che ciclicamente cerca certezze, come cerca un figlio, e poi mai più ne vuole.
Che ne sa lui dell'ingenuità di scoprirci donna, poi, la prima penetrazione.
Lui dà, noi riceviamo. L'essenza di questo atto a lui sfuggirà sempre. Lui è l'animale e deve esaurire il suo piacere. E noi la mente ricevente, attente a non negargli piaceri. Poi la voglia di un figlio, il terrore di non averlo, il rifiuto dello stesso, poi il rimpianto, e l'abbandono che ci tocca per averlo avuto. Ed ancora la solitudine, la pochezza del troppo avere, e sempre il capriccio, del tutto, del nulla.
Dopo si invecchia. Si pretende ciò che non si ha, o nulla vogliamo di più e la paura, la paura di invecchiare, e ci rifugiamo nei desideri più insoliti o troppo soliti, con il terrore di perdere ogni treno. La fine del ciclo della nostra sessualità, per ritrovarne un altra.
Amica mia, siamo meravigliose, senza noi ogni mondo sarebbe annoiato. I maschi farebbero guerre di potere, e con la loro supponenza naturale, si estinguerebbero a breve. Ogni politica senza la nostra ombra, più o meno visibile, sarebbe sfascio.
Ma. Cerchiamo di non dimenticare l'amore, che non ha a che fare con prestazione virile o di potere, anche se le due cose vanno di pari passo. L'amore che parte dal nostro riflesso e senza quel rifletterci consapevole, l'uomo, il maschio, non sarebbe tale, ma noi donne, siamo immortali, lui no.
Lui ha bisogno di noi. Noi possiamo usare ciò di cui necessitiamo.
Amica mia, scusa lo sfogo.
Proseguirò con la mia capricciosa superbia, a cercare carne e mente, per nutrire i miei bisogni, fino a che potrò.
Ma cerco l'amore, sai, l'amore.
Ciao.
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Differenza (pubblicazione edizioni SI' per testo canzone 2013)
Differenza (pubblicazione edizioni SI' per testo canzone 2013)
Mi sono svegliato / nero tra bianchi / seminudo / su una strada di asfalto / tra i tanti benvestiti / guardano / ridono / mi ignorano
Mi sono svegliato / bianco tra neri / nel bel completo / su una via di sabbia / tra una folla seminuda / guardano / sorridono / mi acclamano
Mi sono svegliato / uomo tra donne / in abiti da personaggio / in luoghi di luci / tra mille bellezze / guardano / bisbigliano / mi circondano
Mi sono svegliato / donna tra uomini / elegante di natura / in un ovunque / tra tutti loro / guardano / sospirano / mi corteggiano
Mi sono svegliato / uomo tra maschi / travestito per distinguermi / non importa dove / tra menti altrove / guardano / parlano / mi sorpassano
Mi sono svegliato / donna tra femmine / nuda di me / dappertutto con curiosità / tra voci ricche / guardano / sparlano / mi aggirano
Mi sono svegliato / vecchio tra bimbi / d'abiti antichi / nei loro giochi / tra intuizioni / guardano / borbottano / mi cercano
Mi sono svegliato / bimbo tra vecchi / in vesti ingenue / nella loro confusione / tra gli insegnamenti / guardano / vociferano / mi accontentano
Mi sono svegliato / penso ad ogni vita / al senso della mia / nei sensi consapevoli / mi sono alzato / dall'alto affronto / ciò che dal basso / pareva sogno
Non ho colore / non ho sesso / non ho età / sono io / tra noi
Accogliamoci
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Mi sono svegliato / nero tra bianchi / seminudo / su una strada di asfalto / tra i tanti benvestiti / guardano / ridono / mi ignorano
Mi sono svegliato / bianco tra neri / nel bel completo / su una via di sabbia / tra una folla seminuda / guardano / sorridono / mi acclamano
Mi sono svegliato / uomo tra donne / in abiti da personaggio / in luoghi di luci / tra mille bellezze / guardano / bisbigliano / mi circondano
Mi sono svegliato / donna tra uomini / elegante di natura / in un ovunque / tra tutti loro / guardano / sospirano / mi corteggiano
Mi sono svegliato / uomo tra maschi / travestito per distinguermi / non importa dove / tra menti altrove / guardano / parlano / mi sorpassano
Mi sono svegliato / donna tra femmine / nuda di me / dappertutto con curiosità / tra voci ricche / guardano / sparlano / mi aggirano
Mi sono svegliato / vecchio tra bimbi / d'abiti antichi / nei loro giochi / tra intuizioni / guardano / borbottano / mi cercano
Mi sono svegliato / bimbo tra vecchi / in vesti ingenue / nella loro confusione / tra gli insegnamenti / guardano / vociferano / mi accontentano
Mi sono svegliato / penso ad ogni vita / al senso della mia / nei sensi consapevoli / mi sono alzato / dall'alto affronto / ciò che dal basso / pareva sogno
Non ho colore / non ho sesso / non ho età / sono io / tra noi
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Precipito (premio narrativa concorso nazionale Marina di Pisa 2012)
Precipito (premio narrativa concorso nazionale Marina di Pisa 2012)
Precipito.
Mai sola.
Le stagioni non mi fermano. La trasparenza è mia virtù.
Non ho età. Ho origine nelle origini che sono ipotesi.
Libera nell'aria, colma dell'ossigeno necessario, ripeto il mio percorso ciclico, sempre diverso. La natura immutabile, da sempre mutante, è mia padrona.
La direzione è una. La meta sconosciuta. La terra, sotto, immensa. Sarà erba, roccia, materia, oppure carne, pelle di voi umani. La terra, sotto, un punto di vista da quassù.
Precipito.
Potrei essere una carezza dolce o violenta o stimolo d'istinto per qualche animale cacciatore, oppure ricerca di rifugio per viventi miti. Non ho sesso ne sessualità. Femminile solo per articolo.
Come un soldato obbediente, raggiungo un obiettivo ben preciso ed assolvo gli ordini che dall'alto ho ricevuto.
Come una qualunque tra una folla di simili, atterro nella casualità, e mi disperdo in un presente mai programmato.
Non ho storia. Nel silenzio del mio percorso il tempo mi accompagna. Ritroverò l'era di quel presente che per l'umanità sarà storia, quando mi adagerò. Divento attimo fuggente, forse leggenda, o racconto, esempio, narrazione, o magari esaltazione, inno o icona. Potrei passare inosservata tra tante e sfuggire dimenticata. Se fossi danno sarei temuta e nelle preghiere esaltata con devozione, per non crearne altro. Se fossi utile, ed usata nel quotidiano di sempre, passerei inosservata, per quanto vizio cieco d'uso, o intrusa ma necessaria.
Precipito.
Sono mite, spensierata, innocente come una fanciulla cresciuta nell'educazione del rispetto per chiunque. Cadendo tra voi, potrei finire nella cattiveria, nell'oblio, nella presunzione, nel benessere, nell'indifferenza o esaperazione, nell'avarizia e nella generosità. Insomma vittima di fortune o sfortune di ogni stato dell'animo, per convenienza, costrizione, e comunque evoluzione di ciò che è destino di nascita di ogni umano nel percorso dell'esistere. Potrei appartenere ad un leader come ad un mendicante, ad uno storpio come ad un atleta, ad ogni razza, alta o bassa, nera o bianca. Solo allora avrei identità. Riconoscerei e mi riconoscerei. Comprenderei l'appartenenza.
Cieca, non comprenderei l'ignoranza. Accecata, non capirei l'intelligenza. Troppo illuminata circonderei di stupidità ogni virtù. Esaltandone i pregi, inciampo nella definizione che è necessaria ma ignorante, poichè crea differenze ed ignora le potenzialità che so essere di ogni umano.
E' complesso diventare riconoscibile.
Precipito.
Pare una condizione di allarme. E' una mia missione naturale.
Precipito per atterrare.
Sono goccia, acqua, tra voi, in tutto, per donare vita. Per ricordarne i valori.
Non appartengo a voi, ma sono dentro voi. Con l'anima collaboro alle emozioni. Avvolgo ogni essere prima di ogni vita. Nutro ognuno per dare esistenza.
Un forte calore mi fa evaporare. Un forte vento mi fa deviare. Nulla può fermarmi. L'ovunque mi accoglie. Il dovunque è mia missione. Il dunque affermazione.
La vita è missione. La morte l'errore. Battaglie sbagliate ho accolto sul mio dorso salato. Nel fastidio degli atti ho inghiottito orrori e per sbagli, onori. Non so conoscere e per nulla riconoscere, ciò che è giusto e chi sbaglia.
Seguo il mio ciclo. Assecondo l'evento su cui mi sciolgo o rimango, per proseguire nel sudore o nella lacrima.
Disseto ed alimento. Il mio compito è proseguire la specie. La vostra.
A volte sbaglio senza saperne. Provoco catastrofi ed irrompo nella storia, deviandone prospettive, nell'aspettativa dell'epoca.
Nasco mite. Non so riconoscere la mia prepotenza quando tale diventa. A volte è provocazione nell'errore vostro. Mi adeguo ed irrompo nei vostri danni. La mia invasione diventa lezione. Le morti umane sono vittime del prosieguo di evoluzione. Troppo spesso innocenti. Troppi i colpevoli deceduti senza condanna.
Tremendo. Io. Una goccia di acqua che parla, scrive, definisce, costretta a descrivere la naturalità di un percorso, che devìa, interrotta da una intelligenza di una specie, che trasformando continuamente l'ambientazione, ne fa utilità e ostruzione, confondendone ogni processo ideale.
Precipito.
La mia purezza subisce le più svariate trasformazioni.
Colori e intensità. Chimica e scienza mi sezionano e mi usano per ogni curiosità e utilità. La natura mi indica il percorso per tornare in me, nuovamente goccia di acqua. Sono punto di vista.
Se mi guardi dal basso, alimento le tue lacrime. Se mi guardi dall'alto, bagno i tuoi piedi o divento oceano.
Sono favola della tua infanzia, necessità per il tuo organismo, consapevolezza nella tua crescita. Sono guerra accogliendo navi e sottomarini e le più strane invenzioni da voi ideate. Sono pace salvando folle fuggite da popoli ribelli, indifferente se volete salvarli o cacciarli. Sono nutrimento dissetando genti nei deserti, irrorando campi coltivati, trattenendo la fauna necessaria.
Sono equilibrio nel mio perfetto corso nei percorsi che natura mi ha insegnato. Sono colore o densità, nella salvezza o nella violenza.
Sangue provocato dall'assassino, violento senza pena. Sangue che salva il malato in un letto dimenticato.
Sono gloria per un nuotatore, gioia dopo un incendio.
Sono danno nella cultura se mi infiltro nei monumenti che proclamano storia, o negli affreschi che raccontano il passato. Sono danno nella coltura se i temporali sono troppi, e le tempeste devastanti.
Goccia.
Non mi accorgo di ciò che provoco, se è vita o è morte.
Sono eterna. Dono anima ed esistenza. La mia nascita non è tale. La mia morte non è fine. Esisto da sempre. La mia origine è mistero. Novella scientifica per chi si obbliga nei perchè. Leggenda fantastica per chi mi esalta con lo spirito.
Goccia.
Pioggia, bevanda, profumo, carburante, alimento. Lacrima, sudore, sangue, orgasmo. Malattia, medicina. Solida, liquida, gassosa. Ovunque. Passato. Presente. Futuro. Presente. Assente.
Io, tu, lui, colui. Noi ,voi, essi. In ognuno, in nessuno.
Nell'amore o nell'odio divento follia. Nel coltello che uccide, divento sangue. Nell'amplesso che ama, divento sperma. Vita e morte, la legge della vostra esistenza. L'estinzione o l'eccesso di vite, è la condanna. Ricchezza e povertà. Negli opposti sono presente ed assente. Abuso e necessità. Gli eccessi sarebbero messaggio per accontentarvi tutti nell'equità. Gli estremi sono necessari per riconoscere. Eppure tutto, da sempre, prosegue nell'oblio dell'indifferenza. L'accorgimento è di pochi, che scompaiono nelle parole. Precipito, per suggerirvi un equilibrio necessario.
Sono sempre e sempre presente in voi umani. Non lo ricordate, non mi ricordate.
Precipito.
Sto atterrando.
Non so dove, ma so dov'è.
Non ho anima, non ho pensiero.
Non sono politica, scienza, religione, psicologia. Sta a voi accogliermi nella consapevolezza, per tramutarmi nella coscienza per un confronto di anime, nel confronto degli stati d'animo, tanto numerosi quanto diversi.
Donandovi Vita, vi do la possibilità di Essere. Sono Essenza.
Precipito. Non per predicare.
Accoglietemi.
Capirete.
Anche qui, in un luogo preciso precisato, che han deciso, che ho deciso, per destino, per intento, mi ritrovo tra voi, salata perchè nel mare.
Vi osservo da lontano e vicino. Le onde mi cullano se sono calme. Mi agitano se sono nervose.
Mi fermo e mi soffermo.
Mi lascio avvolgere dalle ombre di monumenti importanti dissipate nella foce del vostro fiume, d'esordio o qualunque, ma poi diventato importante per voi ora, per altri un tempo.
L'Arno.
Mi lascio avvolgere dalle voci, grida, pensieri, che si sono affacciate in esso, nella storia del passato, ora presente, poi futuro.
Mi scaldo, mi raffreddo. I vostri sentimenti sono tutti, belli e brutti, ed io ne faccio sfogo.
Mi avvicino e vi guardo, bagnanti, bagnati, tanti o solitari, rumorosi o sognanti.
Mi trascurate con le stagioni fredde. Mi adorate in quelle calde.
Sono presente sempre, nel vostro distratto considerarmi.
Ascolto il vostro accento, la cadenza. Il modo di camminare su quelle sabbie che spesso bagno, è orgoglio di appartenere ad una terra fiera, importante, imponente mai saccente. E' asilo per passi stranieri, che colgo e accolgo, poichè voi me li traducete.
Mi raccontate la vostra storia per quanto potete, ma forse solo io ed il mare tutto, ne abbiamo colto le verità più aspre, tra vittorie e perdite, che vi hanno concesso la vita di ora, serena e solo a volte irrequieta, per sentimenti di attimi.
La narrazione del domani sarà conseguenza del pensare di ora, ed io non posso predire o predicare nulla.
Sono in balìa della natura inaspettata, spesso deviata da voi stessi.
Ed ancora origlio e mi narrate novelle e storie e storia della vostra terra, che già conosco, ma fingo e ne traggo deduzioni, riflessioni, sempre nuove, che arricchiscono chi verrà. Le racconterò agli stranieri se non sono invasori, che si deliziano del litorale magnifico che vi appartiene.
Non conosco il sonno se non quello che la notte vi impone. Non conosco la notte poichè ho vegliato nel bene e nel male, ogni evoluzione di voi abitanti. Vi proteggo dal mio punto di vista. Ora e nel per sempre che vorrete.
Deliziatemi sempre ed ancora del presente. Proseguite con la vostra storia ed incantatemi. Vi cullerò e amerò tutto ciò che conserverà ogni tradizione, che vi ha portato ad essere ciò che siete.
Grazie, per avermi accolto come straniera, nella mia invasione silenziosa.
Sarò fedele, se lo sarete tra di voi.
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Precipito.
Mai sola.
Le stagioni non mi fermano. La trasparenza è mia virtù.
Non ho età. Ho origine nelle origini che sono ipotesi.
Libera nell'aria, colma dell'ossigeno necessario, ripeto il mio percorso ciclico, sempre diverso. La natura immutabile, da sempre mutante, è mia padrona.
La direzione è una. La meta sconosciuta. La terra, sotto, immensa. Sarà erba, roccia, materia, oppure carne, pelle di voi umani. La terra, sotto, un punto di vista da quassù.
Precipito.
Potrei essere una carezza dolce o violenta o stimolo d'istinto per qualche animale cacciatore, oppure ricerca di rifugio per viventi miti. Non ho sesso ne sessualità. Femminile solo per articolo.
Come un soldato obbediente, raggiungo un obiettivo ben preciso ed assolvo gli ordini che dall'alto ho ricevuto.
Come una qualunque tra una folla di simili, atterro nella casualità, e mi disperdo in un presente mai programmato.
Non ho storia. Nel silenzio del mio percorso il tempo mi accompagna. Ritroverò l'era di quel presente che per l'umanità sarà storia, quando mi adagerò. Divento attimo fuggente, forse leggenda, o racconto, esempio, narrazione, o magari esaltazione, inno o icona. Potrei passare inosservata tra tante e sfuggire dimenticata. Se fossi danno sarei temuta e nelle preghiere esaltata con devozione, per non crearne altro. Se fossi utile, ed usata nel quotidiano di sempre, passerei inosservata, per quanto vizio cieco d'uso, o intrusa ma necessaria.
Precipito.
Sono mite, spensierata, innocente come una fanciulla cresciuta nell'educazione del rispetto per chiunque. Cadendo tra voi, potrei finire nella cattiveria, nell'oblio, nella presunzione, nel benessere, nell'indifferenza o esaperazione, nell'avarizia e nella generosità. Insomma vittima di fortune o sfortune di ogni stato dell'animo, per convenienza, costrizione, e comunque evoluzione di ciò che è destino di nascita di ogni umano nel percorso dell'esistere. Potrei appartenere ad un leader come ad un mendicante, ad uno storpio come ad un atleta, ad ogni razza, alta o bassa, nera o bianca. Solo allora avrei identità. Riconoscerei e mi riconoscerei. Comprenderei l'appartenenza.
Cieca, non comprenderei l'ignoranza. Accecata, non capirei l'intelligenza. Troppo illuminata circonderei di stupidità ogni virtù. Esaltandone i pregi, inciampo nella definizione che è necessaria ma ignorante, poichè crea differenze ed ignora le potenzialità che so essere di ogni umano.
E' complesso diventare riconoscibile.
Precipito.
Pare una condizione di allarme. E' una mia missione naturale.
Precipito per atterrare.
Sono goccia, acqua, tra voi, in tutto, per donare vita. Per ricordarne i valori.
Non appartengo a voi, ma sono dentro voi. Con l'anima collaboro alle emozioni. Avvolgo ogni essere prima di ogni vita. Nutro ognuno per dare esistenza.
Un forte calore mi fa evaporare. Un forte vento mi fa deviare. Nulla può fermarmi. L'ovunque mi accoglie. Il dovunque è mia missione. Il dunque affermazione.
La vita è missione. La morte l'errore. Battaglie sbagliate ho accolto sul mio dorso salato. Nel fastidio degli atti ho inghiottito orrori e per sbagli, onori. Non so conoscere e per nulla riconoscere, ciò che è giusto e chi sbaglia.
Seguo il mio ciclo. Assecondo l'evento su cui mi sciolgo o rimango, per proseguire nel sudore o nella lacrima.
Disseto ed alimento. Il mio compito è proseguire la specie. La vostra.
A volte sbaglio senza saperne. Provoco catastrofi ed irrompo nella storia, deviandone prospettive, nell'aspettativa dell'epoca.
Nasco mite. Non so riconoscere la mia prepotenza quando tale diventa. A volte è provocazione nell'errore vostro. Mi adeguo ed irrompo nei vostri danni. La mia invasione diventa lezione. Le morti umane sono vittime del prosieguo di evoluzione. Troppo spesso innocenti. Troppi i colpevoli deceduti senza condanna.
Tremendo. Io. Una goccia di acqua che parla, scrive, definisce, costretta a descrivere la naturalità di un percorso, che devìa, interrotta da una intelligenza di una specie, che trasformando continuamente l'ambientazione, ne fa utilità e ostruzione, confondendone ogni processo ideale.
Precipito.
La mia purezza subisce le più svariate trasformazioni.
Colori e intensità. Chimica e scienza mi sezionano e mi usano per ogni curiosità e utilità. La natura mi indica il percorso per tornare in me, nuovamente goccia di acqua. Sono punto di vista.
Se mi guardi dal basso, alimento le tue lacrime. Se mi guardi dall'alto, bagno i tuoi piedi o divento oceano.
Sono favola della tua infanzia, necessità per il tuo organismo, consapevolezza nella tua crescita. Sono guerra accogliendo navi e sottomarini e le più strane invenzioni da voi ideate. Sono pace salvando folle fuggite da popoli ribelli, indifferente se volete salvarli o cacciarli. Sono nutrimento dissetando genti nei deserti, irrorando campi coltivati, trattenendo la fauna necessaria.
Sono equilibrio nel mio perfetto corso nei percorsi che natura mi ha insegnato. Sono colore o densità, nella salvezza o nella violenza.
Sangue provocato dall'assassino, violento senza pena. Sangue che salva il malato in un letto dimenticato.
Sono gloria per un nuotatore, gioia dopo un incendio.
Sono danno nella cultura se mi infiltro nei monumenti che proclamano storia, o negli affreschi che raccontano il passato. Sono danno nella coltura se i temporali sono troppi, e le tempeste devastanti.
Goccia.
Non mi accorgo di ciò che provoco, se è vita o è morte.
Sono eterna. Dono anima ed esistenza. La mia nascita non è tale. La mia morte non è fine. Esisto da sempre. La mia origine è mistero. Novella scientifica per chi si obbliga nei perchè. Leggenda fantastica per chi mi esalta con lo spirito.
Goccia.
Pioggia, bevanda, profumo, carburante, alimento. Lacrima, sudore, sangue, orgasmo. Malattia, medicina. Solida, liquida, gassosa. Ovunque. Passato. Presente. Futuro. Presente. Assente.
Io, tu, lui, colui. Noi ,voi, essi. In ognuno, in nessuno.
Nell'amore o nell'odio divento follia. Nel coltello che uccide, divento sangue. Nell'amplesso che ama, divento sperma. Vita e morte, la legge della vostra esistenza. L'estinzione o l'eccesso di vite, è la condanna. Ricchezza e povertà. Negli opposti sono presente ed assente. Abuso e necessità. Gli eccessi sarebbero messaggio per accontentarvi tutti nell'equità. Gli estremi sono necessari per riconoscere. Eppure tutto, da sempre, prosegue nell'oblio dell'indifferenza. L'accorgimento è di pochi, che scompaiono nelle parole. Precipito, per suggerirvi un equilibrio necessario.
Sono sempre e sempre presente in voi umani. Non lo ricordate, non mi ricordate.
Precipito.
Sto atterrando.
Non so dove, ma so dov'è.
Non ho anima, non ho pensiero.
Non sono politica, scienza, religione, psicologia. Sta a voi accogliermi nella consapevolezza, per tramutarmi nella coscienza per un confronto di anime, nel confronto degli stati d'animo, tanto numerosi quanto diversi.
Donandovi Vita, vi do la possibilità di Essere. Sono Essenza.
Precipito. Non per predicare.
Accoglietemi.
Capirete.
Anche qui, in un luogo preciso precisato, che han deciso, che ho deciso, per destino, per intento, mi ritrovo tra voi, salata perchè nel mare.
Vi osservo da lontano e vicino. Le onde mi cullano se sono calme. Mi agitano se sono nervose.
Mi fermo e mi soffermo.
Mi lascio avvolgere dalle ombre di monumenti importanti dissipate nella foce del vostro fiume, d'esordio o qualunque, ma poi diventato importante per voi ora, per altri un tempo.
L'Arno.
Mi lascio avvolgere dalle voci, grida, pensieri, che si sono affacciate in esso, nella storia del passato, ora presente, poi futuro.
Mi scaldo, mi raffreddo. I vostri sentimenti sono tutti, belli e brutti, ed io ne faccio sfogo.
Mi avvicino e vi guardo, bagnanti, bagnati, tanti o solitari, rumorosi o sognanti.
Mi trascurate con le stagioni fredde. Mi adorate in quelle calde.
Sono presente sempre, nel vostro distratto considerarmi.
Ascolto il vostro accento, la cadenza. Il modo di camminare su quelle sabbie che spesso bagno, è orgoglio di appartenere ad una terra fiera, importante, imponente mai saccente. E' asilo per passi stranieri, che colgo e accolgo, poichè voi me li traducete.
Mi raccontate la vostra storia per quanto potete, ma forse solo io ed il mare tutto, ne abbiamo colto le verità più aspre, tra vittorie e perdite, che vi hanno concesso la vita di ora, serena e solo a volte irrequieta, per sentimenti di attimi.
La narrazione del domani sarà conseguenza del pensare di ora, ed io non posso predire o predicare nulla.
Sono in balìa della natura inaspettata, spesso deviata da voi stessi.
Ed ancora origlio e mi narrate novelle e storie e storia della vostra terra, che già conosco, ma fingo e ne traggo deduzioni, riflessioni, sempre nuove, che arricchiscono chi verrà. Le racconterò agli stranieri se non sono invasori, che si deliziano del litorale magnifico che vi appartiene.
Non conosco il sonno se non quello che la notte vi impone. Non conosco la notte poichè ho vegliato nel bene e nel male, ogni evoluzione di voi abitanti. Vi proteggo dal mio punto di vista. Ora e nel per sempre che vorrete.
Deliziatemi sempre ed ancora del presente. Proseguite con la vostra storia ed incantatemi. Vi cullerò e amerò tutto ciò che conserverà ogni tradizione, che vi ha portato ad essere ciò che siete.
Grazie, per avermi accolto come straniera, nella mia invasione silenziosa.
Sarò fedele, se lo sarete tra di voi.
APP
Discorrendo sull'Arno (premio narrativa concorso nazionale Marina di Pisa 2014)
Discorrendo sull'Arno (premio narrativa concorso nazionale Marina di Pisa 2014)
La carta è qualunque o forse papiro o comunque cellulosa antica o moderna per l'era che è. Le mie mani sono attuali, presenti nell'attualità di ciò che sto per fare.
Piego il foglio in due, poi i lembi, e ne ripiego gli angoli. Ne apro il rombo, ritorco le punte e con un piccolo sforzo di dita, ne convergo il fuoriuscito.
La barchetta è perfetta. Nemmeno so quando la si insegnava ai bimbi ad animarla, e chissà chi la inventò. Eccola perfetta per il lungo viaggio sull'acqua. Ed io che narro divento lei. E vede e racconta di ogni cosa che troverà nel percorso. E chissà se arriverà al mare.
L'Arno è silente e pieno di energia, ed in questa Pisa, che lascio immaginare in bianco e nero o forse colorata come in antichi dipinti o anche con ponti rari che narrano storie primordiali. Mi calo sul quel lungarno da sempre fantastico, narrato da quando se ne conosce storia.
La piccola, innocua, garbata barchetta di carta si impone guidata solo dalla corrente, che la porterà alle foci, e lo si spero arrivi.
La lascio dalla lieve morsa delle mani ed eccomi, sono lei.
Timido è l'approccio con acque cosi importanti, che subito mi avvolgono come fossero consapevoli del poter farsi narrare, per rivelarmi segreti per forestieri o chi ha sempre creduto di sapere. Vedo la città ora, i ponti, tanti, importanti ed ognuno ha date di storia, nelle forme, nella materia. E tutto scompare quando un mulinello d'acqua mi fa girare con una velocità, che descrive un tempo a ritroso e mi ferma all'improvviso, e ponti case monumenti scompaiono dalla vista, e tutto tace per farmi ricordare forse le origini di popoli misteriosi o sconosciuti, che, insidiandosi, hanno dato storia agli umani, voi, e possibilità di potere navigare ora.
Popoli si, esseri pensanti che nel progresso non sempre pacifico, ringraziando guerre utili ed inutili, ci hanno donato bellezza, la Bellezza di potere ammirare, la storia di tutto, ospitati dalla natura, letto dell'evoluzione di ogni specie.
Non mi si addice la descrizione di ciò che non so, ma sono carta importante e trascino con me il messaggio, un messaggio, non trascritto ma narrato nel mio galleggìo.
Navigo leggera ora, ed ogni onda disegnata in orizzontale, trascinandomi qua e là, mi suggerisce gli eventi degli anni in unità, decine, centinaia, ad una velocità che non potrà annoiarmi.
Si succedono popoli piccoli e grandiosi, uomini che combattono, inutili poichè masse di guerrieri, e uomini utili perchè nei poteri più estremi. Ma in realtà non ne so distinguere il vero senso. Forse, tanti, sono più importanti di uno. Non so.
Ed Arno, il fiume mio complice, mi mostra nel fondo atrocità mai scoperte.
Ed ancora genti di colori vestiti, e sempre più strani, belli, buffi. Narrano ciò che hanno visto, consigliano ciò che potrà essere, gridano a quello che accade.
Capisco e non comprendo. Ma quella città sta per nascere, crescere, e la carta, io, diventa importante, sempre più.
Navigano barche grandi, tanto grandi. Io piccina non sono veduta.
Controcorrente, verso la corrente, più veloci di me, per volare verso mari, il mare a cui ambisco io, timida. Ora sempre più, emozionata di ciò che vengo a sapere e vedo.
Ancora guerre e paci, flotte e remi, vele e ponti ancora, varchi come cinture che allacciano la terra che era natura ora civiltà umana, sopra all'unico elemento di forza o debolezza di una città rimasto, il fiume, quel fiume, l'Arno sempre più importante, avvolto dalle pietre che non lo contengono quando respira e si ribella di disturbi subiti.
Ancora un mulinello, ora impetuoso, cattivo, mi innalza e straripa spaventando gli abitanti. Tante volte arreca paura. La natura è indomabile. Questo mi insegna l'Arno ormai amico, mostrandomi ogni mitezza e collera di cui è capace.
E proseguo intatta. A volte annego un poco in quei vortici, ma so che la corrente mi donerà ancora bellezza.
Ponti ancora ponti e colori di mattoni, pietre importanti dal mio punto di vista, basso ma alto, oltre il cielo, dentro al cielo.
Pace. E scivolo oltre la città che sfuma e mi apre orizzonti verdi e sempreverdi.
Ora è una danza e mi sento grandiosa come un barcone senza età, era, e scivolo ancora come in una sinfonia ed ammiro vegetazione, natura sempre selvatica. Nei giorni vostri vedo piccoli ormeggi, retoni enormi, barche piccole e grandi e sento odore di mare. Volteggio e mi rigiro e non ho prua o poppa e il grande fiume mi fa divertire, portandomi al mare, in quel bocca d'Arno che intravedo ed in un attimo fa diventare salato ciò che dolce era, nella miscela più soave dell'acqua fonda senza un profondo.
Ciò che erano vortici delicati o irruenti, ora sono correnti ed onde. Il mare mi accoglie ed ospita dedicandomi l'immensità dedicata a tutti. Ecco i lidi, ne conosco la natura, gli odori, la nobiltà e la compostezza di ciò che è selvatico e rispettato tuttora.
Mi avvicino e mi allontano senza guida, senza timoni, vele, remi.
Onde e correnti giocano con me nei chilometri brevi ma ancora eterni di un mondo che potreste ben conoscere.
Sono carta, di natura composta ma dagli umani assemblata. A voi regalo l'anima dei posteri di ogni era moderna. L'inchiostro ne ha trascritto il genio del pensiero, ed ogni bene ed ogni male. Ora navigo, distaccata. Gli elementi naturali mi parlano per suggerirvi e trascrivere, per ricordarvi la Bellezza presente e dimenticata. Sono piccina, ma se tu, proprio tu, su quel lido, su quella spiaggia di meraviglia osservi laggiù lontano, non all'orizzonte di quello tu pensi sia un mare immenso, ma qui, trovi la tua storia, la tua origine, la vitalità del tuo esistere.
Ecco. Lì. Là. Lì. Mi troverai.
Mi hai trovata.
La tua barchetta di carta.
APP
La carta è qualunque o forse papiro o comunque cellulosa antica o moderna per l'era che è. Le mie mani sono attuali, presenti nell'attualità di ciò che sto per fare.
Piego il foglio in due, poi i lembi, e ne ripiego gli angoli. Ne apro il rombo, ritorco le punte e con un piccolo sforzo di dita, ne convergo il fuoriuscito.
La barchetta è perfetta. Nemmeno so quando la si insegnava ai bimbi ad animarla, e chissà chi la inventò. Eccola perfetta per il lungo viaggio sull'acqua. Ed io che narro divento lei. E vede e racconta di ogni cosa che troverà nel percorso. E chissà se arriverà al mare.
L'Arno è silente e pieno di energia, ed in questa Pisa, che lascio immaginare in bianco e nero o forse colorata come in antichi dipinti o anche con ponti rari che narrano storie primordiali. Mi calo sul quel lungarno da sempre fantastico, narrato da quando se ne conosce storia.
La piccola, innocua, garbata barchetta di carta si impone guidata solo dalla corrente, che la porterà alle foci, e lo si spero arrivi.
La lascio dalla lieve morsa delle mani ed eccomi, sono lei.
Timido è l'approccio con acque cosi importanti, che subito mi avvolgono come fossero consapevoli del poter farsi narrare, per rivelarmi segreti per forestieri o chi ha sempre creduto di sapere. Vedo la città ora, i ponti, tanti, importanti ed ognuno ha date di storia, nelle forme, nella materia. E tutto scompare quando un mulinello d'acqua mi fa girare con una velocità, che descrive un tempo a ritroso e mi ferma all'improvviso, e ponti case monumenti scompaiono dalla vista, e tutto tace per farmi ricordare forse le origini di popoli misteriosi o sconosciuti, che, insidiandosi, hanno dato storia agli umani, voi, e possibilità di potere navigare ora.
Popoli si, esseri pensanti che nel progresso non sempre pacifico, ringraziando guerre utili ed inutili, ci hanno donato bellezza, la Bellezza di potere ammirare, la storia di tutto, ospitati dalla natura, letto dell'evoluzione di ogni specie.
Non mi si addice la descrizione di ciò che non so, ma sono carta importante e trascino con me il messaggio, un messaggio, non trascritto ma narrato nel mio galleggìo.
Navigo leggera ora, ed ogni onda disegnata in orizzontale, trascinandomi qua e là, mi suggerisce gli eventi degli anni in unità, decine, centinaia, ad una velocità che non potrà annoiarmi.
Si succedono popoli piccoli e grandiosi, uomini che combattono, inutili poichè masse di guerrieri, e uomini utili perchè nei poteri più estremi. Ma in realtà non ne so distinguere il vero senso. Forse, tanti, sono più importanti di uno. Non so.
Ed Arno, il fiume mio complice, mi mostra nel fondo atrocità mai scoperte.
Ed ancora genti di colori vestiti, e sempre più strani, belli, buffi. Narrano ciò che hanno visto, consigliano ciò che potrà essere, gridano a quello che accade.
Capisco e non comprendo. Ma quella città sta per nascere, crescere, e la carta, io, diventa importante, sempre più.
Navigano barche grandi, tanto grandi. Io piccina non sono veduta.
Controcorrente, verso la corrente, più veloci di me, per volare verso mari, il mare a cui ambisco io, timida. Ora sempre più, emozionata di ciò che vengo a sapere e vedo.
Ancora guerre e paci, flotte e remi, vele e ponti ancora, varchi come cinture che allacciano la terra che era natura ora civiltà umana, sopra all'unico elemento di forza o debolezza di una città rimasto, il fiume, quel fiume, l'Arno sempre più importante, avvolto dalle pietre che non lo contengono quando respira e si ribella di disturbi subiti.
Ancora un mulinello, ora impetuoso, cattivo, mi innalza e straripa spaventando gli abitanti. Tante volte arreca paura. La natura è indomabile. Questo mi insegna l'Arno ormai amico, mostrandomi ogni mitezza e collera di cui è capace.
E proseguo intatta. A volte annego un poco in quei vortici, ma so che la corrente mi donerà ancora bellezza.
Ponti ancora ponti e colori di mattoni, pietre importanti dal mio punto di vista, basso ma alto, oltre il cielo, dentro al cielo.
Pace. E scivolo oltre la città che sfuma e mi apre orizzonti verdi e sempreverdi.
Ora è una danza e mi sento grandiosa come un barcone senza età, era, e scivolo ancora come in una sinfonia ed ammiro vegetazione, natura sempre selvatica. Nei giorni vostri vedo piccoli ormeggi, retoni enormi, barche piccole e grandi e sento odore di mare. Volteggio e mi rigiro e non ho prua o poppa e il grande fiume mi fa divertire, portandomi al mare, in quel bocca d'Arno che intravedo ed in un attimo fa diventare salato ciò che dolce era, nella miscela più soave dell'acqua fonda senza un profondo.
Ciò che erano vortici delicati o irruenti, ora sono correnti ed onde. Il mare mi accoglie ed ospita dedicandomi l'immensità dedicata a tutti. Ecco i lidi, ne conosco la natura, gli odori, la nobiltà e la compostezza di ciò che è selvatico e rispettato tuttora.
Mi avvicino e mi allontano senza guida, senza timoni, vele, remi.
Onde e correnti giocano con me nei chilometri brevi ma ancora eterni di un mondo che potreste ben conoscere.
Sono carta, di natura composta ma dagli umani assemblata. A voi regalo l'anima dei posteri di ogni era moderna. L'inchiostro ne ha trascritto il genio del pensiero, ed ogni bene ed ogni male. Ora navigo, distaccata. Gli elementi naturali mi parlano per suggerirvi e trascrivere, per ricordarvi la Bellezza presente e dimenticata. Sono piccina, ma se tu, proprio tu, su quel lido, su quella spiaggia di meraviglia osservi laggiù lontano, non all'orizzonte di quello tu pensi sia un mare immenso, ma qui, trovi la tua storia, la tua origine, la vitalità del tuo esistere.
Ecco. Lì. Là. Lì. Mi troverai.
Mi hai trovata.
La tua barchetta di carta.
APP
Quadrilogia (dedicato a mio padre)
Quadrilogia (dedicato a mio padre)
QUADRILOGIA DA UN LUOGO DI UMANE VERITA'
E' morto. E' nato. E' innamorato.
L'emozionometro ha le stesse frequenze.
L'emotivometro sempre diverse.
Nella camera
Pareva dormissero entrambi. Li lasciai cosi. La penombra fioca ne illuminò le fantasie.
Fu cosi che Lorenzo si inventò, forse sognando, ma realmente istigando grida, una selvaggia rincorsa tra automobili, lui alla guida di una, l'altra fantasma. L'inseguimento incomincia colorando le due quattroruote, di tonalità inventate dal suo compagno svegliato, forse mai addormentato. Furbi loro, approfittarsi delle tenebre per sfogare ogni folle pensiero.
Paolino sosteneva Lorenzo, pilota di certo già vincitore, in una gara mozzafiato senza fine senza un fine. E cosi seduto sul letto, più grande di tanto di più del suo esile corpo, teneva ben salde le mani su quel volante immaginato. I due erano nel pieno di una corsa tremenda, ed ogni parola urlata, descriveva gli ostacoli da superare..."sterza..! ..ora diritto..! ..noo..a destra cosi..! ..attento a quell'albero..! .. sinistra..sinistraa ho detto..! ..benee..vaiii...."
Paolino, frastornato, assecondava ogni follia del suo compare, diligentemente, quasi con timore, di certo ammirazione senza un perchè. Il percorso impervio, pareva esser proiettato, come in un film, su quella parete di un giallo arancio, di fronte ai loro lettoni. Una curva più pericolosa delle altre ed ecco che Lorenzo sbanda ed esce di pista. Accidenti! Cade dal letto.
Paolino rincalzato tra le lenzuola, quasi infermo nei movimenti, ride, si spaventa un attimo. Ridono entrambi. Gridano entrambi. Che teneri infanti.
Quel maledetto pulsante rosso era irraggiungibile, poichè il marchingenio era caduto a terra chissà perchè, forse nei sobbalzi. Ma le grida, una di dolore e le altre di aiuto, fecero soppraggiungere chi spezzò l'incantesimo del gioco. Gli infermieri, severi come genitori, salvarono i due piloti acciaccati, Mario e Giuliano in realtà, 79 e 90 anni. La loro complicità era come quella di due fratellini da sempre di famiglia, ma conosciutisi da pochi giorni.
Geriatria o pediatria. Attenzioni diverse. Dedizioni identiche. Era uno dei tanti sogni ideati a turno. Nessuna la differenza di fantasie. Mondi inconsapevoli , incoscienti, visioni senza tempo, reali, surreali. Gli uni fantasticati senza sapere, gli altri corrotti dal sapere di tutta un'esitenza. La differenza, nessuna. Protetti dall'innocenza. Richiesta di vita. Richiesta di morte. Un, vorrei. Un, ho già dato. Tutto è concesso. Da educare, i piccini. Da assecondare, gli anziani. Dialoghi incolti, prepotenti o timidi per gli immaturi. Parole colte, frasornate o di lucidità eccessiva, di un sapere ormai inutile per un senno d'archivio.
Lorenzo e Paolino. Menti giocose. Corpo nello sviluppo incosanpevole della crescita nella ricerca di vita, della conoscenza. Mario e Giuliano. Menti stanche, a volte arrese. Corpo nella degenerazione consapevole nella speranza di vita. Un mondo in una camera, di giochi fuori dal senno di logiche del comune convivere. Tanti mondi simili in simili stanze, abitazioni, baracche, capanne, nuda terra, tanti quanta è la cultura della vivenza che della sopravvivenza fa chimica o fato, se non siano guerre, epidemie, malattie rare, disastri naturali, che determinano una estinzione prematura o inaspettata.
La prospettiva è verità ora, che mi incammino e mi soffermo ed osservo. Pronto soccorso ostetrico, ben in vista davanti ai miei occhi. Appena dietro ma distante, il settimo piano, enorme per estensione, del reparto di geriatria, il girone di introduzione ad un reale quieto vivere, forse. E per tre lati, quello superiore infinito allo sguardo, il cielo di un azzurro, che diventerà notte, e poi giorno e poi notte.
Ed ancora una prospettiva, di nascita, di declino di vita, e sfondo celestiale, consolazione interpretabile da ogni stato d'animo soggettivo.
E penso. E mi chiedo.
E mi chiedo. E penso.
Se tutt'altro fosse, e le regole di diversità fossero, quel settimo piano non ci sarebbe mai stato.
Ed io non sarei in angoscia. Poichè la morte, oddio la morte, sarebbe soavità dell'accettazione, senza sofferenza di alcuno, intesa come quella comune di ora, in ogni cultura vissuta a proprio modo.
La necessarietà del dramma ci appartiene, soprattutto a noi di cultura "evoluta". Ogni funerale non sarebbe funebre e la gioia avrebbe un senso
. Ma ciò non sarà mai.
Soffrire è necessario, per il principio del contraddittorio, equilibrio obbligato per il vivendo umano e di tutta la natura stessa terrestre, e forse altrove, identificabile in quel mondo di giochi, sconosciuto ed incomprensbile, di Giuliano e Mario.
E mi chiedo e penso.
E con questo concludo ogni ragionare, e proseguo. Soddisfatto del dubbio, che mi tiene in vita.
Profili e visi interi
Un tramonto. Un alba.
Ma si parla di tramonto.
I contorni sono ben delineati.
Offuscato è solo lo sguardo del profilo che osservo.
Guarda in alto nel vuoto, come un condannato che spera nel cielo.
Come una talpa che si affaccia dalla tana, per intuire che tempo fa.
Guardo all'orizzonte cercandone storia, come un leone che annusa se il giorno è ideale.
Disegno ciò che vedo, con un dito come pennello nell'aria.
In prospettiva trovo un profilo, due profili, tre profili in dissolvenza, come colline adagiate su un manto bianco.
Ma sono volti immobili, sofferenti tra lenzuola di ospedale.
Il tramonto una finestra oltre loro, che non lascia riconoscere ore o stagioni.
Nel profilo la storia è narrata.
Suggerisce il per sempre, di ciò che umano è ignoto.
Altrove, al di fuori di mura sterili di una igiene sofisticata, affiorano le anime contaminate, ammaliate non ancora ammalate, dalla purezza della consapevolezza di indossare corpo e mente.
I profili hanno un volto intero.
Girano e si aggirano, impossessandosi di ciò che interessa.
In piedi per conquistare o subire, seguendo il destino storico.
Supini per riposare o fare dell'amore amore, forse.
I tramonti sono cercati o scelti, dalla forza delle nature.
Nel viso intero la storia è in narrazione. Suggerisce il sempre, di ciò che umano è noto.
In attesa dello sguardo fisso, per evitare ogni profilo, guardiamoci intorno.
Al circo
Non è facile scrivere quando le risate sono ancora tali da fare tremare le mani, anche se si tratta di battere su tasti e non di disegnare calligrafia.
Ma alle battute di Ferruccio il clown, ogni serietà è corrotta.
Gli spettacoli hanno inizi più svariati, poichè non sempre le bestie sono coordinate con lo spirito delle rappresentazioni.
L'ambiente è pulito e silente. Mi capita di aggirarmi fuori orario mentre inservienti alimentano e curano ogni attore dello zoo. Versi più svariati echeggiano nei corridoi a lato degli spazi a loro dedicati. In due o tre vengono curati singolarmente, per essere preparati con dedizione agli spettacoli prossimi.
Le prove, in libertà, hanno toni in rime gravi, acute, delicate, mute, in base alla stazza e razza che abbiano.
Ogni box ha in serbo recite preparate o improvvisate, e lamentano prepotenze narcise ed egocentriche da prima donna. Sono bestie rare che ci sorprendono sempre, poichè fuori dal loro habitat.
Pulite e lavate a dovere, brillano del loro ego, come dovessero esibirsi in cieli di dei immaginati.
Spiriti incoscienti ma che conoscono la parte alla perfezione, quasi fosse guidata da forze incomprese, da me visitatore.
In certi orari, il domatore entra in visita, per controllare la preparazione o i preparativi dei nuovi arrivati. L'occhio esperto scruta gli eletti ed i salvabili, per il migliore spettacolo in scena. La cura va poi delegata ai fidati addetti.
Piacevole è passeggiare in quei lunghi corridoi di confine, e sapere con quanta dedizione ogni spettacolo andrà in scena.
Versi animaleschi fuoriescono soprattutto quando le cure sono in atto, e la pazienza degli angeli domanti, la si ascolta nelle parole calme e di conforto, anche se spesso la bestia non vuole intendere.
Ma è nelle grandi stanze di roulotte immaginate, che incontro Ferruccio un clown, che fa le prove per il suo debutto. I compagni presenti al momento, non possono fare altro che partecipare, ribattendo o tacendo, in una performance improvvisata forse, o davvero copione per le uscite in scena.
Un trucco perfetto per ogni battuta che pare senza senso, ma scandita da gesti precisi e disconnessi, che fanno sembrare tutto furbescamente preparato.
Le ironiche provocazioni sono tali, che le parole precipitano nel delirio clownesco più totale con i colleghi, tutti, vestiti in colorati costumi che paiono pigiami.
Noi spettatori, possiamo solo subire la genialità dei mondi inventati, da questi spettacolari attori.
Mi siedo un poco, stanco dopo la mia breve infinita passeggiata.
Chiudo gli occhi in questa sala di attesa, e solo cosi lo spettacolo ha inizio.
L'udito coordina bestie e clown, domatori e addetti.
I copioni arrivano a me, alla fine del corridoio dove io sono seduto, e come un imbuto li accolgo tutti, come fosse il preludio dell'orchestra, che da il via alla kermesse, all'infinito ripetuta ma mai uguale.
Urla, grida, lamentele, versi insomma, di ogni natura. Lo zoo umano è libero di interepretare ora come non mai, la parte migliore e peggiore dell'animo, sempre o mai espresso. Il passaggio dalla vita alla vita, dalla vita alla morte, dalla morte alla vita, ora è qui, in questo circo, passaggio verso l'ignoto.
Inconsapevolmente ma ora consapevole, sono io spettatore ad occhi chiusi, che posso dirigere questo concerto di arie e poesia, allegre e drammatiche, come le orchestre di ogni circo, accompagnano i vari numeri dei protagonisti. E cosi è e cosi sia, dirigo guidato dai suoni. E se per attimi apro gli occhi, camici bianchi corrono, lampade rosse o altre lampeggiano, letti su ruote accompagnati, entrano ed escono. Pazienti nuovi e spaventati arrivano, altri sorridenti a piedi escono, per non tornare. Ed altri.
Altri che rimangono.
E. Non recitano più. Mai più.
Interrompo lo spettacolo. Gli attori proseguono e non si accorgono.
Esco.
Non ricordo dove si è interrotto.
Ma non importa.
Sono uno dei tanti spettatori.
Dodicesimo piano
Scendere dal dodicesimo piano, frequentando le scale dimenticate e non gli ansiosi ascensori dai led numerati ormai stroboscopici, per l'uso nervoso degli utenti, è calarsi in un certo paradiso.
Il ritmo delle gambe segue lo stupito pensiero che si lascia avvolgere dai gironi, i piani, che con progressiva calma, rilassano le rampe necessarie.
Ogni discendere è ascesa verso il futuro di ogni pensiero, che quel genio della mente cosciente, nell'incoscienza elabora.
Ogni discendere è scandito da passi pensanti a volte distratti, e la fisicità è dettaglio. Il suono della gomma o del cuoio regala eco ogni giorno diverso, in quegli androni comunicanti, e l'enfasi del calpestio ne descrive l'umore dell'attimo.
Ad ogni pausa architettonica, dei numeri a calare, poichè salire è fatica, rivelano i piani, se non ci si vuole affidare alla memoria dell'intuito.
Accanto ai numeri, altre identificazioni, danno il titolo alle condanne, magari non sempre tali. Una cartina della geografia di quella macchina geniale che è il corpo umano.
Ogni pausa un organo, vitale o meno, ma con il "poltern" (rumoreggiare) dei piedi pare di calpestarne le funzioni.
Sentirsi un Caronte fuggente e distratto che naviga attraverso un purgatorio parallelo a quello fatto di una cabina trainata da cavi, che trasporta corpi eretti o supini, e li smista nei gironi di celestiali inferni, illuminati da luce di dedizione e generosità, è sensazione di sospensione, che congela per attimi ogni vitalità in vita, trattenendo il pensiero ad ogni lettura del reparto-girone incontrato.
Discendere per ritrovare la via di uscita, come una formica che conosce perfettamente l'itinerario del suo tunnel, è liberatorio. Ma si tratta di una fuga dall'alto di un paradiso forzato, per chi si candida ad esser angelo prima di ogni aspettativa.
Ogni ingresso, secondo poichè intravisto alla fine di ogni rampa, incornicia il passaggio dei frequentanti del girone, a volte numerosi, a volte rari, a volte risalta solo il colore pastello della parete in prospettiva. Le didascalie sono subito a lato della cornice. Come un quadro, un grande televisore che trasmette un documentario senza tempo tra tempi programmati, con esiti mai previsti nella prevedibilità.
Scendo.
A volte mi precipito.
I sensi diventano controsensi confusi, che siano di direzione che di sensazione.
La fuga è di un corpo che cammina verso il basso solo per l'attrito, per correre verso la quotidianità soggettiva tra le infinite personalità.
Fuggo.
Forse sto volando.
Mi sento un intruso in questo limbo di angeli e demoni e interdetti.
Luogo dove l'anima diventa trasparente e il dolore rivela l'essere nell'umano.
Esco.
Questo, ora quello poichè ne sono all'esterno, è il contenitore dell'eccellenza dei pensieri sulla vita e sulla morte.
Mi salvo, ancora.
APP
QUADRILOGIA DA UN LUOGO DI UMANE VERITA'
E' morto. E' nato. E' innamorato.
L'emozionometro ha le stesse frequenze.
L'emotivometro sempre diverse.
Nella camera
Pareva dormissero entrambi. Li lasciai cosi. La penombra fioca ne illuminò le fantasie.
Fu cosi che Lorenzo si inventò, forse sognando, ma realmente istigando grida, una selvaggia rincorsa tra automobili, lui alla guida di una, l'altra fantasma. L'inseguimento incomincia colorando le due quattroruote, di tonalità inventate dal suo compagno svegliato, forse mai addormentato. Furbi loro, approfittarsi delle tenebre per sfogare ogni folle pensiero.
Paolino sosteneva Lorenzo, pilota di certo già vincitore, in una gara mozzafiato senza fine senza un fine. E cosi seduto sul letto, più grande di tanto di più del suo esile corpo, teneva ben salde le mani su quel volante immaginato. I due erano nel pieno di una corsa tremenda, ed ogni parola urlata, descriveva gli ostacoli da superare..."sterza..! ..ora diritto..! ..noo..a destra cosi..! ..attento a quell'albero..! .. sinistra..sinistraa ho detto..! ..benee..vaiii...."
Paolino, frastornato, assecondava ogni follia del suo compare, diligentemente, quasi con timore, di certo ammirazione senza un perchè. Il percorso impervio, pareva esser proiettato, come in un film, su quella parete di un giallo arancio, di fronte ai loro lettoni. Una curva più pericolosa delle altre ed ecco che Lorenzo sbanda ed esce di pista. Accidenti! Cade dal letto.
Paolino rincalzato tra le lenzuola, quasi infermo nei movimenti, ride, si spaventa un attimo. Ridono entrambi. Gridano entrambi. Che teneri infanti.
Quel maledetto pulsante rosso era irraggiungibile, poichè il marchingenio era caduto a terra chissà perchè, forse nei sobbalzi. Ma le grida, una di dolore e le altre di aiuto, fecero soppraggiungere chi spezzò l'incantesimo del gioco. Gli infermieri, severi come genitori, salvarono i due piloti acciaccati, Mario e Giuliano in realtà, 79 e 90 anni. La loro complicità era come quella di due fratellini da sempre di famiglia, ma conosciutisi da pochi giorni.
Geriatria o pediatria. Attenzioni diverse. Dedizioni identiche. Era uno dei tanti sogni ideati a turno. Nessuna la differenza di fantasie. Mondi inconsapevoli , incoscienti, visioni senza tempo, reali, surreali. Gli uni fantasticati senza sapere, gli altri corrotti dal sapere di tutta un'esitenza. La differenza, nessuna. Protetti dall'innocenza. Richiesta di vita. Richiesta di morte. Un, vorrei. Un, ho già dato. Tutto è concesso. Da educare, i piccini. Da assecondare, gli anziani. Dialoghi incolti, prepotenti o timidi per gli immaturi. Parole colte, frasornate o di lucidità eccessiva, di un sapere ormai inutile per un senno d'archivio.
Lorenzo e Paolino. Menti giocose. Corpo nello sviluppo incosanpevole della crescita nella ricerca di vita, della conoscenza. Mario e Giuliano. Menti stanche, a volte arrese. Corpo nella degenerazione consapevole nella speranza di vita. Un mondo in una camera, di giochi fuori dal senno di logiche del comune convivere. Tanti mondi simili in simili stanze, abitazioni, baracche, capanne, nuda terra, tanti quanta è la cultura della vivenza che della sopravvivenza fa chimica o fato, se non siano guerre, epidemie, malattie rare, disastri naturali, che determinano una estinzione prematura o inaspettata.
La prospettiva è verità ora, che mi incammino e mi soffermo ed osservo. Pronto soccorso ostetrico, ben in vista davanti ai miei occhi. Appena dietro ma distante, il settimo piano, enorme per estensione, del reparto di geriatria, il girone di introduzione ad un reale quieto vivere, forse. E per tre lati, quello superiore infinito allo sguardo, il cielo di un azzurro, che diventerà notte, e poi giorno e poi notte.
Ed ancora una prospettiva, di nascita, di declino di vita, e sfondo celestiale, consolazione interpretabile da ogni stato d'animo soggettivo.
E penso. E mi chiedo.
E mi chiedo. E penso.
Se tutt'altro fosse, e le regole di diversità fossero, quel settimo piano non ci sarebbe mai stato.
Ed io non sarei in angoscia. Poichè la morte, oddio la morte, sarebbe soavità dell'accettazione, senza sofferenza di alcuno, intesa come quella comune di ora, in ogni cultura vissuta a proprio modo.
La necessarietà del dramma ci appartiene, soprattutto a noi di cultura "evoluta". Ogni funerale non sarebbe funebre e la gioia avrebbe un senso
. Ma ciò non sarà mai.
Soffrire è necessario, per il principio del contraddittorio, equilibrio obbligato per il vivendo umano e di tutta la natura stessa terrestre, e forse altrove, identificabile in quel mondo di giochi, sconosciuto ed incomprensbile, di Giuliano e Mario.
E mi chiedo e penso.
E con questo concludo ogni ragionare, e proseguo. Soddisfatto del dubbio, che mi tiene in vita.
Profili e visi interi
Un tramonto. Un alba.
Ma si parla di tramonto.
I contorni sono ben delineati.
Offuscato è solo lo sguardo del profilo che osservo.
Guarda in alto nel vuoto, come un condannato che spera nel cielo.
Come una talpa che si affaccia dalla tana, per intuire che tempo fa.
Guardo all'orizzonte cercandone storia, come un leone che annusa se il giorno è ideale.
Disegno ciò che vedo, con un dito come pennello nell'aria.
In prospettiva trovo un profilo, due profili, tre profili in dissolvenza, come colline adagiate su un manto bianco.
Ma sono volti immobili, sofferenti tra lenzuola di ospedale.
Il tramonto una finestra oltre loro, che non lascia riconoscere ore o stagioni.
Nel profilo la storia è narrata.
Suggerisce il per sempre, di ciò che umano è ignoto.
Altrove, al di fuori di mura sterili di una igiene sofisticata, affiorano le anime contaminate, ammaliate non ancora ammalate, dalla purezza della consapevolezza di indossare corpo e mente.
I profili hanno un volto intero.
Girano e si aggirano, impossessandosi di ciò che interessa.
In piedi per conquistare o subire, seguendo il destino storico.
Supini per riposare o fare dell'amore amore, forse.
I tramonti sono cercati o scelti, dalla forza delle nature.
Nel viso intero la storia è in narrazione. Suggerisce il sempre, di ciò che umano è noto.
In attesa dello sguardo fisso, per evitare ogni profilo, guardiamoci intorno.
Al circo
Non è facile scrivere quando le risate sono ancora tali da fare tremare le mani, anche se si tratta di battere su tasti e non di disegnare calligrafia.
Ma alle battute di Ferruccio il clown, ogni serietà è corrotta.
Gli spettacoli hanno inizi più svariati, poichè non sempre le bestie sono coordinate con lo spirito delle rappresentazioni.
L'ambiente è pulito e silente. Mi capita di aggirarmi fuori orario mentre inservienti alimentano e curano ogni attore dello zoo. Versi più svariati echeggiano nei corridoi a lato degli spazi a loro dedicati. In due o tre vengono curati singolarmente, per essere preparati con dedizione agli spettacoli prossimi.
Le prove, in libertà, hanno toni in rime gravi, acute, delicate, mute, in base alla stazza e razza che abbiano.
Ogni box ha in serbo recite preparate o improvvisate, e lamentano prepotenze narcise ed egocentriche da prima donna. Sono bestie rare che ci sorprendono sempre, poichè fuori dal loro habitat.
Pulite e lavate a dovere, brillano del loro ego, come dovessero esibirsi in cieli di dei immaginati.
Spiriti incoscienti ma che conoscono la parte alla perfezione, quasi fosse guidata da forze incomprese, da me visitatore.
In certi orari, il domatore entra in visita, per controllare la preparazione o i preparativi dei nuovi arrivati. L'occhio esperto scruta gli eletti ed i salvabili, per il migliore spettacolo in scena. La cura va poi delegata ai fidati addetti.
Piacevole è passeggiare in quei lunghi corridoi di confine, e sapere con quanta dedizione ogni spettacolo andrà in scena.
Versi animaleschi fuoriescono soprattutto quando le cure sono in atto, e la pazienza degli angeli domanti, la si ascolta nelle parole calme e di conforto, anche se spesso la bestia non vuole intendere.
Ma è nelle grandi stanze di roulotte immaginate, che incontro Ferruccio un clown, che fa le prove per il suo debutto. I compagni presenti al momento, non possono fare altro che partecipare, ribattendo o tacendo, in una performance improvvisata forse, o davvero copione per le uscite in scena.
Un trucco perfetto per ogni battuta che pare senza senso, ma scandita da gesti precisi e disconnessi, che fanno sembrare tutto furbescamente preparato.
Le ironiche provocazioni sono tali, che le parole precipitano nel delirio clownesco più totale con i colleghi, tutti, vestiti in colorati costumi che paiono pigiami.
Noi spettatori, possiamo solo subire la genialità dei mondi inventati, da questi spettacolari attori.
Mi siedo un poco, stanco dopo la mia breve infinita passeggiata.
Chiudo gli occhi in questa sala di attesa, e solo cosi lo spettacolo ha inizio.
L'udito coordina bestie e clown, domatori e addetti.
I copioni arrivano a me, alla fine del corridoio dove io sono seduto, e come un imbuto li accolgo tutti, come fosse il preludio dell'orchestra, che da il via alla kermesse, all'infinito ripetuta ma mai uguale.
Urla, grida, lamentele, versi insomma, di ogni natura. Lo zoo umano è libero di interepretare ora come non mai, la parte migliore e peggiore dell'animo, sempre o mai espresso. Il passaggio dalla vita alla vita, dalla vita alla morte, dalla morte alla vita, ora è qui, in questo circo, passaggio verso l'ignoto.
Inconsapevolmente ma ora consapevole, sono io spettatore ad occhi chiusi, che posso dirigere questo concerto di arie e poesia, allegre e drammatiche, come le orchestre di ogni circo, accompagnano i vari numeri dei protagonisti. E cosi è e cosi sia, dirigo guidato dai suoni. E se per attimi apro gli occhi, camici bianchi corrono, lampade rosse o altre lampeggiano, letti su ruote accompagnati, entrano ed escono. Pazienti nuovi e spaventati arrivano, altri sorridenti a piedi escono, per non tornare. Ed altri.
Altri che rimangono.
E. Non recitano più. Mai più.
Interrompo lo spettacolo. Gli attori proseguono e non si accorgono.
Esco.
Non ricordo dove si è interrotto.
Ma non importa.
Sono uno dei tanti spettatori.
Dodicesimo piano
Scendere dal dodicesimo piano, frequentando le scale dimenticate e non gli ansiosi ascensori dai led numerati ormai stroboscopici, per l'uso nervoso degli utenti, è calarsi in un certo paradiso.
Il ritmo delle gambe segue lo stupito pensiero che si lascia avvolgere dai gironi, i piani, che con progressiva calma, rilassano le rampe necessarie.
Ogni discendere è ascesa verso il futuro di ogni pensiero, che quel genio della mente cosciente, nell'incoscienza elabora.
Ogni discendere è scandito da passi pensanti a volte distratti, e la fisicità è dettaglio. Il suono della gomma o del cuoio regala eco ogni giorno diverso, in quegli androni comunicanti, e l'enfasi del calpestio ne descrive l'umore dell'attimo.
Ad ogni pausa architettonica, dei numeri a calare, poichè salire è fatica, rivelano i piani, se non ci si vuole affidare alla memoria dell'intuito.
Accanto ai numeri, altre identificazioni, danno il titolo alle condanne, magari non sempre tali. Una cartina della geografia di quella macchina geniale che è il corpo umano.
Ogni pausa un organo, vitale o meno, ma con il "poltern" (rumoreggiare) dei piedi pare di calpestarne le funzioni.
Sentirsi un Caronte fuggente e distratto che naviga attraverso un purgatorio parallelo a quello fatto di una cabina trainata da cavi, che trasporta corpi eretti o supini, e li smista nei gironi di celestiali inferni, illuminati da luce di dedizione e generosità, è sensazione di sospensione, che congela per attimi ogni vitalità in vita, trattenendo il pensiero ad ogni lettura del reparto-girone incontrato.
Discendere per ritrovare la via di uscita, come una formica che conosce perfettamente l'itinerario del suo tunnel, è liberatorio. Ma si tratta di una fuga dall'alto di un paradiso forzato, per chi si candida ad esser angelo prima di ogni aspettativa.
Ogni ingresso, secondo poichè intravisto alla fine di ogni rampa, incornicia il passaggio dei frequentanti del girone, a volte numerosi, a volte rari, a volte risalta solo il colore pastello della parete in prospettiva. Le didascalie sono subito a lato della cornice. Come un quadro, un grande televisore che trasmette un documentario senza tempo tra tempi programmati, con esiti mai previsti nella prevedibilità.
Scendo.
A volte mi precipito.
I sensi diventano controsensi confusi, che siano di direzione che di sensazione.
La fuga è di un corpo che cammina verso il basso solo per l'attrito, per correre verso la quotidianità soggettiva tra le infinite personalità.
Fuggo.
Forse sto volando.
Mi sento un intruso in questo limbo di angeli e demoni e interdetti.
Luogo dove l'anima diventa trasparente e il dolore rivela l'essere nell'umano.
Esco.
Questo, ora quello poichè ne sono all'esterno, è il contenitore dell'eccellenza dei pensieri sulla vita e sulla morte.
Mi salvo, ancora.
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7 aforismi (finalista premio filosofia Certaldo 2012)
7 aforismi (finalista premio filosofia Certaldo 2012)
Mi chiedo perchè. E con questo concludo, poichè so di aver pensiero.
D'io si vive. Meglio accorgersene.
Oggi son pene, disse il maschio, come ieri, come domani. Ma non si disperò.
Non mi ricordo. A volte ho amnesia del feci. Sto attento a ciò che faccio, per non dimenticarmi.
Da bambino, costruivo castelli di sabbia. Da adolescente, ne cercavo il mistero. Da adulto, li fabbrico in aria.
La storia non è un fu per un sarà. La storia è ora. Ricordandola.
Vorrei. Verbo umano dell'improbabile.
APP
Mi chiedo perchè. E con questo concludo, poichè so di aver pensiero.
D'io si vive. Meglio accorgersene.
Oggi son pene, disse il maschio, come ieri, come domani. Ma non si disperò.
Non mi ricordo. A volte ho amnesia del feci. Sto attento a ciò che faccio, per non dimenticarmi.
Da bambino, costruivo castelli di sabbia. Da adolescente, ne cercavo il mistero. Da adulto, li fabbrico in aria.
La storia non è un fu per un sarà. La storia è ora. Ricordandola.
Vorrei. Verbo umano dell'improbabile.
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Una bimba
Una bimba.
Mi sorpassa a testa china.
Bellissima, bionda, degli anni perfetti.
Non sa di sé, se non nello specchiarsi nell'attimo di buio tra un file e l'altro.
Non sa dov'è, se non quando arriva a destinazione.
Mi sorpassa veloce quell'auto.
Suo padre, serio, alla guida. Silenziosa la sua compagna.
Sfreccia oltre ai limiti concessi.
La bimba guarda in basso. E' dispersa in un sesso che suo non è, ma l'incanto penetra la sua ingenuità, sapiente nel gioco.
E' altrove.
L'immaginario non è la natura che scorre oltre i vetri di quella scatoletta veloce, che le farebbe comprende il cielo e la terra, e la distanza tra i luoghi che ama, che amerà.
L'immaginario è disperso in un immaginato predisposto e imposto dal tastare che sfiora, in quel rettangolo minuscolo luminoso, che non è l'immenso che la circonda.
Bellissimo ciò che tu fai, piccola splendida bimba di altri.
Sei muta, silente, nel dialogo del tuo fantasticare tra te ed il creato, non quel Creato. Ti hanno insegnato a camminare.
Forse qualcuno ti insegnerà a camminare, e capirai le distanze tra luoghi, osservando albe, tramonti, lune.
Forse imparerai da sola.
Chissà come.
Poi toccherà a te, insegnare a capire. Comincia a comprendere da dove sei partita e dove arriverai.
Guardandoti intorno.
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Una bimba.
Mi sorpassa a testa china.
Bellissima, bionda, degli anni perfetti.
Non sa di sé, se non nello specchiarsi nell'attimo di buio tra un file e l'altro.
Non sa dov'è, se non quando arriva a destinazione.
Mi sorpassa veloce quell'auto.
Suo padre, serio, alla guida. Silenziosa la sua compagna.
Sfreccia oltre ai limiti concessi.
La bimba guarda in basso. E' dispersa in un sesso che suo non è, ma l'incanto penetra la sua ingenuità, sapiente nel gioco.
E' altrove.
L'immaginario non è la natura che scorre oltre i vetri di quella scatoletta veloce, che le farebbe comprende il cielo e la terra, e la distanza tra i luoghi che ama, che amerà.
L'immaginario è disperso in un immaginato predisposto e imposto dal tastare che sfiora, in quel rettangolo minuscolo luminoso, che non è l'immenso che la circonda.
Bellissimo ciò che tu fai, piccola splendida bimba di altri.
Sei muta, silente, nel dialogo del tuo fantasticare tra te ed il creato, non quel Creato. Ti hanno insegnato a camminare.
Forse qualcuno ti insegnerà a camminare, e capirai le distanze tra luoghi, osservando albe, tramonti, lune.
Forse imparerai da sola.
Chissà come.
Poi toccherà a te, insegnare a capire. Comincia a comprendere da dove sei partita e dove arriverai.
Guardandoti intorno.
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