Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno
VENERDI’ 23 FEBBRAIO 2024 ore 20.45
venerdì 16 Febbraio 2024, 22:57
Filed under: Cinemapiù 42,Video

CEMETERY OF SPLENDOUR
Rak ti Khon Kaen
di Apichatpong Weerasethakul
con Jenjira Pongpas. Jarinpattra Rueangram, Banlop Lomnoi
Francia/GB/Germania/Malesia/Thailandia   2015   122′

Soldati con una misteriosa malattia del sonno sono trasferiti in un ospedale provvisorio allestito in una scuola abbandonata. Jenjira offre di prendersi cura di Itt, un bel soldato che nessuno visita. Fa anche amicizia con Keng, una giovane medium che usa i suoi poteri per aiutare le famiglie a contattare gli uomini addormentati. Un giorno Jenjira trova il diario di Itt, ricoperta di scritte strane e schizzi. Forse c’è una connessione tra l’enigmatica sindrome da cui sono affetti i soldati e il mitico luogo antico che si estende sotto la scuola? Magia, guarigione, romanticismo e sogni si mescolano sulla strada di Jenjira, alla ricerca di una profonda consapevolezza di sé e del mondo che la circonda.

Negli occhi aperti/sbarrati di Jenjira, fissi su un gruppo di bambini che sta giocando a calcio tra le dune di terra sollevate dalle grandi ruspe al lavoro per la nuova cementificazione di un’area rurale, si nasconde il senso intimo e al contempo universale di Cemetery of Splendour, il nuovo film di Apichatpong Weerasethakul presentato in concorso nella sezione Un certain regard alla sessantottesima edizione del Festival de Cannes. Lo sguardo di Jenjira, che attraversa lo spazio e il tempo per rintracciare le coordinate della propria esistenza, dei propri amori perduti, è anche lo sguardo di una nazione sognante e costretta a intervalli regolari a ridestarsi dal sonno per confrontarsi con la realtà.
Sono la Thailandia i soldati afflitti dalla strana malattia che li porta a dormire nello stanzone di un ex-scuola trasformata in un ospedale improvvisato: un paese diviso tra l’incedere della modernità e il retaggio mistico e ancestrale della campagna, da cui echeggiano i versi di un passato glorioso, che negli ultimi ottant’anni ha vissuto un’altalena continua tra dittature militari e brevi momenti di risveglio democratico. Il sonno della dittatura (e quindi della ragione) genera mostri, ma i personaggi di Cemetery of Splendour appaiono più come ectoplasmi alla ricerca di una propria dimensione, probabilmente impossibile da raggiungere.

Cemetery of Splendour inizia lì dove erano finiti i vari Mysterious Object at Noon, Blissfully Yours, Tropical Malady, Syndromes and a Century,Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti e Mekong Hotel: un mondo destinato all’estinzione che cerca di rinnovare la propria memoria di sé, dell’essere in vita, del ricordare. Se può essere considerato cinema resistente, quello di Weerasethakul, non è “solo” perché propone una visione altra alla prassi, ricollocando lo sguardo su traiettorie dimenticate nel corso degli anni, ma anche e soprattutto perché attraverso la “visione” il regista thailandese riesce ancora a cristallizzare e problematizzare una questione (non solo) privata. Cemetery of Splendour è ambientato nel nord-est, nella regione dell’Isan, la stessa in cui crebbe Weerasethakul con la sua famiglia, composta da due genitori entrambi medici; non è certo un caso che torni preponderante l’ambiente ospedaliero, già al centro di Syndromes and a Century, così come non è casuale che i dialoghi tornino a vagheggiare dei combattimenti al confine con il Laos, del tentativo di “thaizzazione” dell’area.
I militari dormienti sono il cuore di una Thailandia riottosa e sconfitta, guidata da ambizioni spropositate di potere e dalla memoria di un passato glorioso che non tornerà più. Le aule delle grandi regge sono immateriali, le si deve voler scorgere attraverso la boscaglia, immaginandole.

Più ancora che in passato, è l’immaginazione l’unico veicolo di relazione umana che riesce realmente a consolidarsi in Cemetery of Splendour. Se si sente il bisogno di alzarsi sull’attenti è in un cinema, di fronte a uno schermo bianco su cui, per pochi istanti, sono passate le immagini di un trailer ai limiti del demenziale (l’ipotetico The Iron Coffin Killer). Guidando lo spettatore attraverso una rete infinita di stratificazioni culturali – dalle più palesi alle più recondite – Weerasethakul teorizza la necessità di guardare, fissare nella mente, immobilizzare nella retina il mondo che ci circonda, indispensabile atto per compenetrarvisi. L’occhio viene accolto in una zona liminare, protetto e contemporaneamente esposto; le luci soffuse e cangianti che dovrebbero accompagnare il sonno dei soldati in ospedale sono lì anche per lo spettatore, per ridestarlo e irretirlo. È l’ipnosi collettiva, l’assuefazione a un modello distorto (la ginnastica/ballo, la promozione di una crema di bellezza per le donne del villaggio) a spingere verso la distruzione dell’immaginario. Solo l’immateriale può ancora salvare il mondo, perché la materia è deperita, svilita, corrotta.

I fantasmi che vivono Cemetery of Splendour (e il cinema di Weerasethakul nella sua interezza) non sono paragonabili a quelli, per rimanere fermi ai film presentati sulla Croisette, di Kiyoshi Kurosawa o di Miguel Gomes – il piccolo cagnolino Dixie… Sono i fantasmi di un passato vissuto, lacerante e dolce, deplorevole e amato. È qui che il film trova la sua collocazione politica. Non si tratta semplicemente di un viaggio nel passato e nel presente della Thailandia, né di una metafora – per quanto mirabile – dell’accettazione della perdita. Cemetery of Splendour è un’elegia trattenuta e sempre spiazzante dell’atto dello sguardo come conoscenza e riconoscimento dell’altro. “L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lacrima”, affermava anni or sono Alberto Grifi, e Weerasethakul testimonia questa verità con un’opera sontuosa, con la quale ci si deve confrontare per poter tentare di comprendere l’umano di oggi, e il macchinario visionario attraverso il quale codifica l’esistente. E l’inesistente. Il cinema di Weerasethakul è l’evoluzione biologica di un occhio che fu evoluzione biologica di una lacrima: al suo interno si agitano gli spettri della Thailandia, della propria memoria, del cinema, del passato e del presente, del documento “reale” (la gamba di Jenjira è quella che Jenjira Pongpas Widner si vide deturpare a seguito di un grave incidente stradale nel 2003) e della totale ricreazione visionaria.

Tutto intorno si attua un teatro permanente, rappresentazione viva (perché nata già morta, inerte) di un presente che non ha più respiro, e si accontenta di dormire. Sognare, forse. Sbarra gli occhi, Jenjira, come la Margherita in lutto di Mia madre e, a ben vedere, come il Paul Dedalus di Trois souvenirs de ma jeunesse. Tutti con gli occhi sbarrati, nel disperato tentativo di risvegliarsi, e scoprire che nulla è quel che è, nella realtà. Sempre che esista, la realtà. Avrebbe meritato di concorrere per la Palma d’Oro, Cemetery of Splendour, ma è probabile che un cinema così potente e destabilizzante continui a far paura a chi mette in scena macchinari dell’immaginario ben più standardizzati come i festival.
Quinlan, Raffaele Meale

Commenti disabilitati su Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno
VENERDI’ 23 FEBBRAIO 2024 ore 20.45


Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo
VENERDI’ 16 FEBBRAIO 2024 ore 20.45
venerdì 09 Febbraio 2024, 22:09
Filed under: Cinemapiù 42,Video

ALPS
Alpis
di Yorgos Lanthimos
con Angeliki Papoulia, Ariane Labed, Aris Servetalis, Johnny Vekris, Efthymis Filippou
Grecia   2011   93′

Alps, terzo lungometraggio di Yorgos Lanthimos, ritorna sugli schermi italiani distribuito da Phoenix International Film. Premio Osella per la migliore sceneggiatura al Festival di Venezia 2001, è un film che fornisce le coordinate per tracciare un nuovo paradigma societario, basato sulla sostituzione e sull’annientamento dell’umano.

Il team chiamato Alps, formato da un paramedico, un’infermiera, una ginnasta e il suo coach, si sostituisce alle persone defunte per sostenere i parenti e alleviare loro le pene derivanti dal lutto. Del tutto assimilabile a una società clandestina di mutuo soccorso, la squadra affronta le situazioni più paradossali, ma l’apice della stranezza la si tocca quando una delle quattro prende il posto di una giovane tennista moribonda dopo un incidente stradale.

Lo spazio è un circuito chiuso, il tempo non ha durata e non sono concesse verticalizzazioni, né profondità di campo. Gli ambienti in cui si muove la macchina da presa sono sale di tortura fisica e psicologica in cui i personaggi diventano silhouette senza vita al centro dell’esperimento di un sadico che si chiede cosa ci sia di autentico in questo mondo congelato. Lanthimos realizza così un claustrofobico dramma surreale carico di humour nero, ambientato in un tempo senza social in cui le interazioni tra gli esseri umani si riducono a corpi da indossare e da vivere.

Proprio la sostituzione dei corpi, fredde e intercambiabili asperità, permette al regista di sfruttare il canone del surrealismo per raccontare una società che (tra)passa attraverso le icone popolari, perché del defunto sono replicabili solo scorie nazional-popolari come il nome dell’attore preferito, dettagli trascurabili come i suoi tic e le sue abitudini quotidiane, mentre la sua anima rimane inaccessibile. La poetica della mercificazione di corpi e marchi, vista anche in Dogtooth con la comparsa di alcuni film cult anni Ottanta prosegue in Alps sfruttando un procedimento ricorsivo: alla solenne apertura con i Carmina Burana, subentrano gli Aphex Twin nel finale per soddisfare il desiderio sfrenato di pop della ginnasta. La ragazza rimane in superficie, insieme alle melodie abbaglianti, a Brad Pitt e Jude Law, a Hollywood, Prince e a tutti gli automi schizofrenici che si improvvisano “ultracorpi” per trasformare il loro cambio di pelle in ossessione condivisa.

Ciò che colpisce maggiormente nella spietata cronaca dell’assurdo imbastita dal regista è la capacità di analizzare la realtà contemporanea facendo confliggere tra loro solitudini e brama di possesso, assegnando alla morte, non più l’oblio, ma il ruolo decisivo per la proliferazione delle psico-patologie della vita quotidiana. Questo cinema geometrico e chirurgico, infatti, non si sofferma sulla rielaborazione del lutto, ma sullo sviluppo di tutte quelle nevrosi che spingono i membri dell’associazione alla bulimia del possesso “di superficie”. In questo valzer di atti meccanici e parole svuotate di senso, viene depotenziato il valore supremo dell’alterità, attraverso il discrimine che intercorre tra la finzione “simulata” dagli “ultracorpi” e la realtà, in un delirio che pian piano si cronicizza fino a eliminare ogni possibile sublimazione.
Vincenzo Palermo

Commenti disabilitati su Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo
VENERDI’ 16 FEBBRAIO 2024 ore 20.45


Frammenti: Patrice Leconte
VENERDI’ 9 FEBBRAIO 2024 ore 20.45
sabato 27 Gennaio 2024, 17:23
Filed under: Cinemapiù 42,Video

L’UOMO DEL TRENO
L’homme du train
di Patrice Leconte
con Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Jean-François Stévenin, Charlie Nelson, Pascal Parmentier
Francia   2002   90′

Milan (Johnny Hallyday) arriva col treno e con un mal di testa che, rimasto a corto di aspirine proprio mentre tutti i negozi tirano giù le serrande, lo conduce in una farmacia dove anche Manesquier (l’anziano pensionato interpretato da Jean Rochefort) sta comprando delle medicine. E per errore del farmacista, che gli vende delle compresse effervescenti, è quasi costretto ad accettare l’invito dell’altro che gli offre un bicchiere d’acqua nella sua casa poco distante.
Sembra una casualità, come quando, poco dopo, Milan trova l’albergo dove avrebbe dovuto alloggiare chiuso. L’unica soluzione, quindi, è tornare dall’anziano signore senza chiavi di casa e chiedergli ospitalità fino al sabato.
Se uno è solitario per scelta e di poche parole, l’altro soffre la solitudine e ha bisogno di parole e spiegazioni.
La convivenza per due uomini abituati solo ai propri pensieri è tutt’altro che scontata e non può che sollevare ognuno dei due dalle abitudini e convinzioni di una vita intera.

Leconte gestisce le attese e i lunghi tempi narrativi con un ritmo perfetto, il tutto scandito da un appuntamento di entrambi i protagonisti, che entrambi non possono sfuggire e che ad entrambi cambierà la vita, nel bene o nel male.
La freddezza apparente di Milan è in contrasto con la calma piatta ma accogliente della casa di Manesquier, e i toni blu della fotografia ce lo ricordano ogni volta che Milan esce dalla villa e progetta, insieme a vecchi colleghi, una rapina nella banca del paese e che inghiotte lo stesso Manesquier quando insieme diventano complici fuori dalla culla domestica e quando entrambi si avviano verso una crescita interiore reciproca.
Milan fa provare l’ebbrezza di sparare a Manesquier e, di rimando, lui gli insegna a tenere sempre uno spazzolino di scorta o a portare pantofole in casa. La casa ricca di tappeti, quadri, divani e fotografie di un’infanzia felice che poi, a detta dello stesso Manesquier, s’è trasformata in una vita cristallizzata, in cui lui ha mantenuto la stessa posa per anni. La sua passione per la poesia, la musica e la sua professione (Manesquier era professore di francese), lo rendono un uomo sensibile, senza pregiudizi, capace di accogliere e chiedere aiuto. Manesquier mostra i suoi bisogni, li maschera rendendoli ancor più evidenti nella sua goffaggine, e colpiscono persino un duro come Milan.


La regia originale di Leconte sostiene e arricchisce la sceneggiatura di Claude Klotz, curatissima e piena di spunti, che riapre di tanto in tanto durante la narrazione.
Leconte alterna momenti più lenti, e sempre essenziali, in cui i brillanti dialoghi trovano il respiro che meritano, considerando che quasi ogni battuta contiene temi e concetti su cui si potrebbe riflettere a lungo; gli interni sono gestiti proprio con questa consapevolezza, le conversazioni fra Milan e Manesquier sono inserite in un contesto di tranquillità, tra luci soffuse e penombre nelle atmosfere placide e pacate della casa. I toni intimi risaltano, evidenziati anche dall’attenzione per i particolari e una macchina da presa quasi sempre stretta sui protagonisti. Il mondo fuori è più incostante, le inquadrature rimangono scarne e i piani si allargano mostrando ambienti se non ostili quantomeno estranei, uno sfondo sul fuoco sempre presente sullo sviluppo del rapporto tra i personaggi.
La fotografia segue la stessa logica e oscilla tra interni neutri e propri di Manesquier e i toni freddi, blu, di Milan. Entrambi assumono le caratteristiche dell’altro quando l’altro “conduce” nella propria esperienza, i colori di Milan diventano quelli di Manesquier se è il primo a guidare e viceversa.
Le interpretazioni sono il giusto compenso per una grande storia, sia Rochefort che Hallyday riescono a centrare i caratteri aggiungendogli un fascino fondamentale con una recitazione matura.
Se il tema è quanto si può mettere in gioco se stessi e potersi fidare di qualcuno, allora sia Milan (che non ha mai fallito) che Manesquier (uno che è abituato alle sconfitte), raggiungono il loro vero obiettivo nonostante gli eventi.
Uno scambio reale che viaggia e, fino alla fine, si incontra per poi passare oltre, in direzioni opposte accomunate da quell’attimo condiviso tanto intenso e prezioso.
Ondacinema, Giulia Novelli

Commenti disabilitati su Frammenti: Patrice Leconte
VENERDI’ 9 FEBBRAIO 2024 ore 20.45


Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno VENERDI’ 26 GENNAIO 2024 ore 20.45
lunedì 22 Gennaio 2024, 11:54
Filed under: Cinemapiù 42,Video

LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI
Loong Boonmee raleuk chat
di Apichatpong Weerasethakul
con Thanapat Saisaymar,Jenjira Pongpas, Sakda Kaewbuadee, Natthakarn Aphaiwonk, Geerasak Kulhong
Tailandia.  2010  114′

Lo zio Boonmee (Thanapat Saisaymar), un uomo di circa sessant’anni gravemente malato, decide di trascorrere i suoi ultimi giorni di vita immerso nella natura della sua casa di campagna. Ad accudirlo ci sono sua cognata Jen (Jenjira Pongpas – Syndromes and a Century) e suo nipote Tong (Sakda Kaewbuadee – Syndromes and a Century,Tropical Malady, Deep in the Jungle, The state of the world) oltre all’aiuto di un giovane infermiere. Ma ben presto il paesaggio bucolico sarà teatro di inattese apparizioni soprannaturali, come i fantasmi della sua vecchia moglie e di suo figlio entrambi deceduti molti anni prima. Il figlio di Boonmee è ora diventato una sorta di spirito della foresta, e si presenta con le sembianze di una scimmia dagli occhi spiritati. A loro si aggiungono il ricordo di un misterioso pesce gatto e di un bue che insegue la sua libertà. Boonmee deciderà di iniziare il suo ultimo viaggio attraverso la foresta entrando dentro una antica caverna, forse il luogo della sua prima nascita, prima di accettare il suo destino.
Liberamente ispirato al libro del monaco buddhista Phra Sripariyattiweti, che parla appunto di un uomo che viene chiamato Boonmee e che ha la facoltà di ricordare le sue vite precedenti, il film di Apichatpong Weerasethakul (Mysterious object at Noon, Blissfully Yours, Tropical Malady , Syndromes and a Century) si inserisce idealmente nel più ampio progetto multimediale che il cineasta porta avanti: il Primitive project, di cui fanno parte anche installazioni, cortometraggi e pubblicazioni. Tale progetto intende scavare nel passato e nel presente (sia storico che spirituale) di un piccolo territorio a Nord della Thailandia chiamato Nabua, reinventandone la configurazione attraverso l’arte. Il film ha vinto la Palma d’oro al 63° Festival di Cannes convincendo una giuria presieduta da Tim Burton.  Sentieri Selvaggi, P.M.

Commenti disabilitati su Apichatpong Weerasethakul, il cinema come luogo del sogno VENERDI’ 26 GENNAIO 2024 ore 20.45


Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 19 GENNAIO 2024 ore 20.45
martedì 16 Gennaio 2024, 13:35
Filed under: Cinemapiù 42,Video

DOGTOOTH
Kynodontas
di Yorgos Lanthimos
con Angeliki Papoulia, Mary Tsoni, Hristos Passalis, Anna Kalaitzidou, Alexander Voulgaris, Christos Stergioglou
Grecia 2009 94′

Da qualche parte sotto l’Acropoli e dietro il muro alto di una villa, vive una famiglia ‘autarchica’. Il padre, in comunione con una moglie sottomessa, ha deciso di crescere i propri figli al riparo dal mondo. Soltanto lui ha il diritto di superare i confini del giardino e il dovere di mantenere la famiglia. Tutte le menzogne passano per lui, anche la collera, fino lo scacco. Figlie e figlio restano a casa a imparare una vita che non ha nessuna corrispondenza col reale. A covare il nido una madre che li alleva nel culto della performance, evocando, per trattenerli dentro, una minaccia esterna. L’educazione passa per l’apprendimento di parole che hanno perso il loro referente, quella sessuale per un’impiegata della fabbrica dove il padre è dirigente. Assunta per soddisfare i piaceri del figlio maschio, Christina è l’enigmatico ospite che porterà scompiglio nella ‘tradizione’.

Come risvegliare la coscienza di un Paese addormentato? Con una seduta ipnotica di ipnosi. Alla seconda prova, Yorgos Lanthimos firma un’allegoria della manipolazione mentale, meglio, dell’educazione rigida delle dittature, dei totalitarismi, del patriarcato, provando a smontarli e a mostrarne il meccanismo.

Fortemente condizionata, la famiglia (ovvero il popolo) si lascia sottomettere non conoscendo altra realtà, nessuna sfumatura tra bene e male, moralità e immoralità. Il quotidiano imposto è il solo quotidiano, i protagonisti non ne escono mai, non sono mai pronti. In quella bolla delirante, uno zombie diventa un fiore giallo, un gatto diventa una creatura malefica e assassina, all’età adulta poi si accede perdendo il canino (permanente). Lo ha detto papà.

L’universo diventa assurdo per chi non è mai andato oltre il perimetro del suo giardino. E dall’assurdità di certe situazioni, Lanthimos deriva un humour nero. Le risate scaturiscono sovente da un malessere davanti all’immaginazione della manipolazione, alla sua perversità. Come nei drammi di Ionesco o nei film di Haneke, in Dogtooth l’uomo diventa animale fra ellissi e tempi morti, silenzi e dialoghi crudi. Ma Lanthimos rilancia per donare forza al suo proposito.

Nudità, perversione, trasgressione, asservimento, balordaggine, l’autore greco non contempla il fuori campo. Mostrare, mostrare tutto e preferibilmente in piano fisso e in primo piano per aumentare fastidio e disagio. In quei piani il film perde forza di colpo, l’eccessivo diventa insignificante, quasi vano. È piuttosto nei controcampi ‘fuori’, quelli che fanno respirare il film e lo spettatore, che Lanthimos trova la forza abbacinante della denuncia.

Dietro i muri, genitori senza nome crescono figli senza nome, ricreano un mondo dove forgiano e suggestionano una prole innocente. Un mondo carcerario. Una prigione tanto più crudele perché ficcata sotto il sole insolente della Grecia, di cui qualche aria musicale ascoltata in auto richiama la bellezza, la libertà e il ribollio di miti indissociabili da questo Paese.

In quel castello di purezza xenofoba, dove le parole cambiano di senso, la riproduzione è un mistero divino, gli aerei cadono ‘come giocattoli’ e il nonno ha la voce (e il talento) di Frank Sinatra, Lanthimos svolge una cronaca di fascismo ordinario per dire qualche cosa della sua esasperazione, del suo Paese e della famiglia come spazio totalitario, mondo a sé ossessionato dalle proprie leggi. Eludendo le trappole del suo racconto e il simbolismo eccessivo, si muove sul terreno di Pasolini, mettendo in crisi sistema e protocolli con un messaggero dell’altrove. Naturalmente, l’incontro ravvicinato con la realtà non salverà nessuno. Christina, l’unico personaggio ad avere un nome, a parte quel Bruce rubato al cinema dalla figlia maggiore, è la manifestazione improvvisa al centro del nulla umano. È la condizione, arbitrariamente stabilita, di un teorema che dimostra la forza scandalosa del sacro e collassa la famiglia, prima teatro della crudeltà umana.
Marzia Gandolfi

Commenti disabilitati su Yorgos Lanthimos, il piacere dell’imbarazzo VENERDI’ 19 GENNAIO 2024 ore 20.45


Jacques Tourneur, la paura dell’ignoto L’ UOMO LEOPARDO VENERDI’ 12 GENNAIO 2024 ore 20.45
lunedì 08 Gennaio 2024, 19:33
Filed under: Cinemapiù 42,Video

The Leopard Man
di Jacques Tourneur
con Dennis O’Keefe, Margo, James Bell
USA 1943 66′

Una cittadina del Nuovo Messico è sconvolta da una serie di brutali omicidi: si pensa che il colpevole sia un leopardo fuggito durante un’esibizione. La verità, però, sarà decisamente più sconvolgente. Tratto dal racconto L’alibi nero di Cornell Woolrich, L’uomo leopardo è un film che conferma il grande talento visivo di Jacques Tourneur. Il regista francese torna a lavorare per il produttore Val Lewton, dopo Il bacio della pantera(1942) e Ho camminato con uno zombi (1943), e firma quello che potrebbe essere definito come il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia orrorifica. Come per i due lavori precedenti, Tourneur punta su uno stile minimale, fa parlare più le immagini delle parole (maestosa fotografia di Robert de Grasse) e punta su un’atmosfera dai tratti perturbanti capace di inquietare ancora oggi. Suspense, mistero, confezione impeccabile: il risultato non può che appassionare nella sua semplicità, spaventare e far riflettere su quanto siano profondi gli abissi che si annidano all’interno della mente umana. Una perla da riscoprire.
Longtake

Commenti disabilitati su Jacques Tourneur, la paura dell’ignoto L’ UOMO LEOPARDO VENERDI’ 12 GENNAIO 2024 ore 20.45



arci